Sto pensando a due eventi di grande successo di pubblico realizzati recentemente : il floating piers di Christo sul Lago d’Iseo e l’abbraccio delle Mura venete a Bergamo.
Il primo ha attirato e coinvolto più di un milione di persone in due settimane; il secondo undicimilacinquecento in poche ore.
Al primo ho assistito tramite servizi tv, giornali, social. Al secondo, oltre alle informazioni attinte dagli stessi canali, ho assistito anche di persona.
Non ho partecipato a nessuno dei due.
Perché?
Perché il primo è stato presentato come opera d’arte temporanea dallo stesso autore e mi pare che il concetto contenga una contraddizione insuperabile: un’opera d’arte può essere rinnegata e anche distrutta dal suo autore o dai fruitori, e gli esempi di queste pratiche nella storia dell’arte sono moltissimi, ma non può nascere nella mente del creatore con una data di fine.
L’autore concepisce l’opera per dare sfogo al bisogno di perpetuità dell’essere umano che nell’arte trova uno dei tentativi di realizzazione concreta.
Un’opera che nasce con una data di estinzione è un manufatto artigianale, un bene industriale, un prodotto di consumo.
Infatti i piers, i moli, sono stati consumati. In abbondanza. Anche perché era gratis. Vi si accedeva senza pagare il biglietto.
Il fatto stesso che l’artista bulgaro, specializzato nella Land Art che consiste in grandi installazioni effimere a corredo temporaneo di architetture e monumenti preesistenti, si chiami Christo di nome , lo mette in relazione col molo galleggiante come con tutto ciò che Cristo, senza h, fece e disse secondo i Vangeli: atti unici, che ognuno avrebbe voluti rifatti per sé.
Ma Cristo non ripeteva.
Inevitabilmente.
Si può camminare sulle acque, come si dice che fece Cristo ed è un miracolo, ma far camminare sull’acqua centomila persone al giorno per quindici giorni di seguito richiede necessariamente, oltre, forse, all’interesse divino, anche un aiuto tecnologico.
Bisogna chiamarsi Christo, con l’acca, perché Cristo non è sufficiente.
Così come attirare undicimilacinquecento persone in un paio d’ore ad abbracciarsi a comando, a staffetta, con l’onda, lungo le Mura di Bergamo alta, non si può fare senza supporto tecnologico.
Fra i tanti accessori tecnici allestiti dagli organizzatori di entrambi gli avvenimenti, uno, il più importante, mancava necessariamente, ma se lo sono portati appresso i partecipanti.
Io non ho partecipato nemmeno all’ abbraccio.
Perché?
Perché l’iniziativa è stata presentata come tentativo di ingresso nel guinness dei primati.
Questo mette in primo piano chi partecipa e non l’opera, che invece merita l’afflato collettivo per mostrarsi al mondo.
Tutto ciò è arte? È prodigio?
No, è tecnologia.
Che tipo di tecnologia?
La tecnologia dell’emozione narcisa, la tecnologia del fai da te del quarto d’ora di notorietà che da solo non arriva mai e cha va confezionato da sé.
Ama il prossimo tuo come te stesso, ricorda bene C(h)risto, con e senza h.
E allora si parte da noi stessi.
La tecnologia per amare gli altri arriverà, qualcuno la inventerà e la venderà.
Per ora sta in secondo piano, come le mura, come l’acqua e il lago.
Frattanto siamo attirati dal prossimo affinché il prossimo ci ammiri.
Così corriamo ovunque ci sia tanta gente che possa individualmente gettare uno sguardo su di noi: che sia un centro commerciale, un ristorante, una discoteca, un molo o un muro.
L’importante è che ci sia moltitudine che ci possa ammirare.
L’ha detto anche Christo: l’opera non è il molo galleggiante, ma la gente che sperimenta un’emozione.
Guardando le immagini che ci sono arrivate dal lago come le scene che ho visto sulle Mura di Bergamo, non posso dargli torto.
Un’ emozione ha dominato.
L’emozione narcisa del fai da te.
L’emozione effimera, come l’opera in scadenza e l’abbraccio per il record che consente di amarsi senza amare; di ammirarsi senza ammirare; di fotografarsi senza fotografare.
L’emozione dell’autoscatto.
La tecnologia del selfie.
Capisci se hai fatto centro, non se ti ammirano, ma se si fanno un selfie con te per ammirarsi.
Se ti chiedono il miracolo per sé.
Guardarsi per credere.
Guarire per credere.
Credere per guardarsi.
Credere per guarire.
Con o senza h.
di: Guido Rovi,