Il profondo rispetto che proviamo nei confronti del Partito democratico e dei suoi militanti — nella cui comunità la gran parte di noi non ha mai militato — ci impone di avvicinarci a questa fase congressuale con umiltà e discernimento.
Il servizio peggiore che potremmo svolgere sarebbe infatti quello di vivere in forma schematica, irregimentata, militarizzata un confronto che invece ci interessa nella sua sincerità e nella sua profondità. Abbiamo a cuore nient’altro che il futuro della sinistra nel nostro Paese.
Pensiamo che vivere meccanicamente questo percorso sarebbe sbagliato anche perché — ed è forse la prima cosa che abbiamo imparato guardando più da vicino l’avvio del percorso costituente e congressuale — la descrizione che si propone delle candidate e dei candidati alla Segreteria nazionale è spesso distorta e caricaturizzata.
Il Manifesto per il nuovo Pd e la presentazione delle piattaforme hanno chiarito che vi è una consonanza complessiva e che gli obiettivi, oltre che i valori, sono in larga parte condivisi, un vero e proprio patrimonio comune.
Con questo spirito, vogliamo allora indicare alcuni nodi che noi riteniamo importanti, sia per il congresso sia per chi sarà chiamato a dirigere il nuovo Pd.
- La vera frattura che va ricomposta non è tanto (o essenzialmente) quella consumatasi negli anni scorsi all’interno dei gruppi dirigenti. Ma è quella tra la sinistra e il nostro popolo, quei milioni di elettori e cittadini, lavoratrici e lavoratori, che hanno giudicato, con la loro disaffezione, i risultati di troppi anni di errori e scelte politiche sbagliate. Sul lavoro e sulla precarietà, sulla scuola pubblica, sul sistema di welfare nel suo complesso. Il nostro popolo ha giudicato queste scelte e ancora prima ha giudicato uno stile, un modo di fare politica sbagliato e respingente: autoreferenziale, auto-conservativo, schiacciato sul momento elettorale, finalizzato al puro esercizio del governo, privo di anima e di passione. Dunque occorre porsi innanzitutto l’obiettivo di ricucire quella frattura, riconnettendo la politica con la vita del nostro Paese e delle persone che lo abitano, con le loro fragilità, inquietudini, ansie, passioni e desideri. Questo è il cuore della cura, come paradigma della nostra idea di politica, di società, di vita.
- Noi pensiamo che occorra scegliere un punto di vista con cui guardare la società e le sue contraddizioni. Questo punto di vista è il lavoro ed è questa la ragione che ha spinto molti di noi a fondare e animare in questi anni in tutta Italia un movimento chiamato Articolo Uno. Il lavoro non inteso in senso astratto, ma nella sua materialità. Il lavoro produttivo e riproduttivo, il lavoro della giungla delle diverse forme contrattuali, subordinato e para-subordinato. Il lavoro precario, fino alla piaga del lavoro nero e del caporalato. Non esiste sinistra se non si pone l’obiettivo di riconsegnare dignità al lavoro e a chi lavora. Questo obiettivo porta con sé un programma puntuale: dal salario minimo alla riforma della contrattazione, dalla lotta ai voucher fino al rafforzamento della sicurezza nei luoghi di lavoro e della formazione permanente nelle politiche attive per il lavoro. Tuttavia non è sufficiente evocare il lavoro. Occorre riconquistare un rapporto con i ceti produttivi e un’idea del rapporto tra ceti produttivi, tra lavoro e imprese. Qui si colloca la necessità di una riflessione intorno a un nuovo equilibrio tra Stato e mercato, che va inquadrata in una lettura coerente con la migliore tradizione della sinistra europea e soprattutto in una lettura adeguata al tempo presente, alle grandi crisi e alle grandi trasformazioni (ecologica ed energetica, digitale, pandemica). Le politiche di programmazione e le politiche industriali, che da sempre hanno accompagnato scelte espansive e redistributive, acquistano senso se smettono di essere feticci ideologici e diventano pratiche concrete, sostanziando un rapporto solido con il tessuto industriale e imprenditoriale del nostro Paese. È a quest’altezza che la sinistra deve proporre un orizzonte, indicare le priorità strategiche, un modello di sviluppo, un paradigma. Solo così possiamo stringere un patto: responsabilità sociale, sostegni qualitativi e quantitativi agli investimenti in processi e in prodotti innovativi e compatibili con la transizione ecologica, impegno alla redistribuzione di profitti che, a monte, sono garantiti dalla qualità e dall’innovazione e non dalla concorrenza al ribasso sul costo del lavoro.
- Prima del lavoro, nel proprio percorso di crescita, ciascun cittadino incontra l’istruzione pubblica: la scuola, l’Università. Prendersi cura della scuola e dell’Università pubblica deve tornare a essere un pilastro essenziale della nostra iniziativa perché vuol dire contribuire al benessere collettivo e alla qualità della democrazia. A maggior ragione in questo lento riemergere dal dramma della pandemia, dopo due anni nei quali per centinaia di migliaia di ragazzi, soprattutto adolescenti, l’assenza di una vita scolastica piena ha prodotto ritardi formativi, contraccolpi psicologici, blocchi esistenziali di cui ogni famiglia si sta facendo carico. Non servono soltanto, finalmente, investimenti seri ed europei, ma prima di tutto una idea diversa e democratica della scuola: contrariamente alla retorica meritocratica, che è ingiusta perché cristallizza le differenze e le gerarchie sociali di partenza, dobbiamo proporre una scuola dell’inclusione, che assuma lo sguardo di chi è nato indietro: la scuola dei diversamente abili, dei migranti, di prima e seconda generazione, dei ragazzi con disturbi specifici dell’apprendimento, di chi cresce nelle periferie sociali ed esistenziali. Dobbiamo affermare e praticare il diritto allo studio e proporre un’idea di scuola che contesti la canalizzazione precoce degli studenti, che introduca percorsi diversificati a partire dai 16 anni, nei quali si realizzi l’integrazione tra istruzione e formazione professionale.
- A noi interessa il partito: per noi, per la nostra storia e cultura politica, non c’è alcun dubbio rispetto a quale debba essere lo strumento della battaglia politica, delle idee, del radicamento e dell’organizzazione del consenso. Si tratta ora di rafforzare il partito reale e di trasformarlo passo dopo passo nel partito di cui sentiamo il bisogno. Un partito che sia il mezzo con cui ricucire la distanza prima ricordata tra politica e vita, tra sinistra e bisogni. Un partito come grande soggetto collettivo, radicato e popolare: in grado di guardare le persone all’altezza degli occhi e non da pulpiti che non esistono più. Una forza di trasformazione che renda ognuno, ogni iscritto, protagonista della linea politica e della elaborazione politico-intellettuale e che riesca ad agire con solidità, concretezza, pragmatismo. Un partito capace di mettere in rete amministratori, corpi intermedi, radicato appunto nel tessuto sociale e democratico del Paese. Che non rifugge la dimensione digitale ma non la sostituisce a quella fisica, dei circoli, delle case del popolo (vecchie e nuove, come tutti i luoghi ricreativi, associativi, culturali, artistici che sono disseminati nel Paese e che possiamo riavvicinare e coinvolgere). E questo non per un anacronismo stucchevole, bensì per un ragionamento di fondo che dice della nostra collocazione rispetto ai grandi temi del rapporto tra tecnologia e umano, tra tecnica e vita, tra solitudine, comunità e politica. Un partito non liquido, non personale e personalistico, non schiacciato sulla dimensione elettorale, non in balìa — direbbe ancora oggi Enrico Berlinguer — delle camarille e dei capi-bastone. Un partito è, piuttosto, l’identità che propone nel rapporto con la società, i suoi movimenti e le sue trasformazioni. Una identità non statica, viva, e tuttavia netta, è proiettata pienamente nel campo di idee e di valori che sceglie di frequentare. Senza un punto di vista autonomo, una lettura critica di questo sistema, della democrazia e della qualità nuova della crisi che stiamo attraversando, non c’è futuro. Il partito, il nostro partito, ha bisogno allora di vivere in un rapporto profondo con un’idea nuova di un socialismo all’altezza della sfida della transizione ecologica e della nuova centralità degli algoritmi e della potenza del calcolo. Un’idea, in altri termini, di un nuovo umanesimo nel quale il contributo della cultura cattolico-democratica non solo è essenziale, ma ci spinge a maggiore radicalità e a maggiore coraggio a partire dal tema della pace e del rifiuto della guerra (come sistema, come tendenza della storia, come paradigma fondativo del tempo presente) come ci insegna il magistero profetico di papa Francesco.
- Infine, noi crediamo che l’impegno che prende vita con il congresso debba tradursi già nelle prossime settimane in una iniziativa politica di massa nell’opposizione al governo e nella ricostruzione dei legami unitari all’interno del campo democratico e progressista. Nel nostro piccolo la scelta di aderire e partecipare al percorso congressuale ha anche il senso di superare la frammentazione e aiutare una ricomposizione unitaria. Su scala diversa, il nostro impegno deve essere quello di aggregare, ricostruire — per esempio attraverso una rete nazionale di comitati per l’alternativa — uno schieramento di forze politiche e sociali che indichino insieme un progetto di giustizia sociale e di cambiamento, a partire da prime visibili battaglie unitarie nel Paese, come sul terreno della difesa della sanità pubblica e del contrasto al suo de-finanziamento.
Potremmo aggiungere altri spunti ma ci fermiamo qui, a quello che ci pare essere il nocciolo di una possibile ripartenza. A un nuovo gruppo dirigente spetta l’onere di scelte decisive per il futuro del nuovo Pd, della sinistra italiana e del Paese.
Daremo un contributo, se ne avremo l’opportunità, provando a dimostrare che è possibile concepire la politica come servizio e farlo insieme, aprire il partito e fargli del bene.