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Istruzione e Cultura: ripartiamo, con l’approccio di Berlinguer

Relazione di sintesi del gruppo di lavoro sui saperi critici all'assemblea plenaria "Fondamenta"

Mi perdonerete il riferimento ambizioso, ma nel 1977 Enrico Berlinguer – un uomo che ha segnato la nostra vita, le nostre biografie collettive e, penso, debba segnare anche questo nostro nuovo percorso comune – concludeva il convegno degli intellettuali promosso al Teatro Eliseo di Roma dal Partito comunista italiano.
 
Lo faceva con concetti e parole che mi pare utile ricordare oggi.

  1. Il convegno (quel convegno, come molto più modestamente il nostro incontro di ieri) non è un risultato compiuto, ma il frutto di una ricerca e di un lavoro comune, collettivo;
  2. ogni progetto di trasformazione (compreso il nostro) deve essere discusso tra la gente e con la gente, perché noi non vogliamo applicare dottrine o schemi ma percorrere vie non ancora esplorate e cioè inventare qualcosa di nuovo che stia sotto la pelle della storia;
  3. per questo motivo è naturale che il primo momento di questo lavoro sia l’incontro con le forze creative, con le forze degli intellettuali e della cultura.

 
Noi siamo a questa altezza del cammino, soltanto all’inizio. Vogliamo aprire, lo abbiamo fatto ieri, una campagna di ascolto che ha già coinvolto e soprattutto che coinvolgerà le migliori risorse e intelligenze che vivono nel mondo della scuola, dell’università, della ricerca e della cultura italiana. Il primo impegno che assumiamo è quello di strutturare da domani tre gruppi distinti di lavoro sui saperi critici (scuola, università e ricerca, beni culturali) con l’obiettivo di creare una commissione nazionale permanente di Articolo 1 – Mdp, di ricerca, inchiesta, approfondimento ed elaborazione programmatica.
 
Ci impegniamo a farlo con umiltà, non soltanto perché l’umiltà è l’antidoto all’arroganza e alla prepotenza, ma per il semplice motivo che noi sin qui abbiamo sbagliato. Quando nel maggio del 2015 l’allora ministro alle Riforme Maria Elena Boschi dichiarò – per sostenere la buona scuola e contro un movimento di insegnanti e studenti in lotta – che la “scuola in mano ai sindacati non funziona”, si determinò una rottura, una frattura, una faglia, tra il centro-sinistra e il nostro popolo, che noi non abbiamo ancora ricomposto.
 
Agire con umiltà significa provare a ricomporre quella frattura.
 
L’idea, il principio di un uomo solo al comando che deve dirigere tutto, che si chiami Matteo Renzi o assuma le sembianze dei presidi manager imposti con la buona scuola, era ed è l’esatto contrario di ciò su cui la sinistra ha impostato dal secondo dopoguerra in poi il progetto di crescita, di riscatto, di trasformazione del Paese. Ricordo Don Milani, che diceva a Barbiana che la scuola era l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori cioè di senso politico. Una generazione, due generazioni che hanno portato l’Italia ad evadere dalla prigione dell’analfabetismo.
 
Grazie a maestri e professori simili a quelli che ricordava Guido Calogero nei primi anni Cinquanta: “Se per strada incontro un collega lo saluto. Ma se incontro un insegnante mi fermo, mi cavo di capo il cappello e mi inchino”. Quando Veltroni dice che siamo nostalgici del Novecento dice in un certo senso il vero. Siamo nostalgici di un tempo in cui la sinistra difendeva i lavoratori come gli insegnanti e gli studenti!
 
Era e può tornare a essere l’esperienza della scuola materna dell’Emilia-Romagna, che trasforma e che governa, di quell’esperienza straordinaria di pedagogia e di emancipazione che era dei Comuni e che si sostanziava nei consigli scuola-città. Ma ve li ricordate? Quegli istituti di democrazia dal basso in cui insegnanti, personale ausiliario, rappresentanti del quartiere, genitori svolgevano insieme una funzione sociale di integrazione e di crescita civile.
 
Il centro-sinistra che ha voluto e imposto al Parlamento la buona scuola è il centrosinistra che ha abbandonato quell’idea di società, dimenticandosi che la scuola della Repubblica è il luogo privilegiato per trasformare le diversità in ricchezza culturale comune e per rimescolare le carte della stratificazione sociale. La scuola, come diceva Calamandrei, non come un pezzo qualunque dello Stato ma come un organo della Costituzione.
 
Noi abbiamo ieri iniziato un’analisi, che poggia su alcuni punti fermi.
 
Il primo è la constatazione che oggi la funzione pubblica della istruzione e della cultura vive in Italia grazie a un lavoro privo di tutele, di dignità, di garanzie e di stabilità.  Grazie al precariato e al suo sfruttamento.
 
Vale nella scuola, con il blocco indegno dei contratti da più di otto anni. Vale nei musei, che rimangono aperti grazie al contributo di migliaia di precari sottopagati. Vale nelle Università, che funzionano grazie a un precariato che seleziona per classe la professione dei nuovi ricercatori, dei dottorandi, dei docenti.
 
A cui si aggiungono nei musei, nelle biblioteche e negli archivi forme di volontariato che assomigliano semplicemente alla schiavitù.
 
La protesta di questi giorni dei precari della Biblioteca nazionale di Roma è emblematica. E noi da qui diciamo a questi lavoratori, a queste donne e a questi uomini, che siamo con loro. Al loro fianco.
 
Il secondo elemento di analisi riguarda gli investimenti. Negli ultimi anni l’Italia ha diminuito del 22% gli investimenti nell’Università pubblica, mentre la Germania li ha aumentati del 23%. C’è un problema gigantesco, che non diminuisce ma allarga il gap tra noi e l’Europa.
 
In nove anni il taglio al fondo del finanziamento ordinario di 1 miliardo su 7 ha prodotto la riduzione del 20% del personale tecnico-amministrativo con il blocco del turn over, la diminuzione  dell’offerta formativa e del finanziamento per la ricerca.
 
Tutto questo mentre lo Stato – quello stato che costringe il CNR, il più grande ente pubblico di ricerca, con 8600 dipendenti, a un bilancio di 500 milioni annui, e che destina alle Università pubbliche, a partire da quelle del centro-Sud, fondi infinitamente al di sotto delle necessità – finanzia 145 milioni di euro all’anno per otto anni il Technopole di Milano, una fondazione di diritto privato il cui management non risponde allo Stato ma a logiche di interesse privato.
 
E poi le Biblioteche, di nuovo. Le 46 biblioteche statali italiane hanno, insieme, un bilancio che è inferiore a quello della biblioteca nazionale di Parigi.
 
Ma perché avviene questo? Perché tutto è diventato merce. È il neoliberismo in salsa italiana: il divorzio nei beni culturali di quel connubio tra valorizzazione e tutela che è insito nell’articolo 9 della Costituzione e che ha trasformato in nome della valorizzazione il bene culturale in una merce. Un principio che corrode la democrazia e che è del tutto simile a ciò che il Jobs Act determina nel lavoro, dove la dignità e il valore del lavoro viene monetizzato. Sei licenziato senza giusta causa? Va bene, lo Stato non garantisce il reintegro ma ti paga, monetizza la tua dignità, il valore del tuo lavoro. Così avviene per i beni culturali. Lavoro, cultura: tutto è merce, tutto si vende e si compra.
 
Allora, sin qui la denuncia, la pars destruens.
 
Ma quali sono le nostre proposte?
 
Diciamocelo con sincerità: bisognerebbe riformare in radice la buona scuola e costruire una nuova legge quadro attraverso veri e propri Stati generali dell’istruzione, dell’Università e della Ricerca in cui tutte le componenti della scuola, a partire da quelle che abbiamo messo in questi giorni intorno a un tavolo, potessero dire la propria, alzare la voce, farsi finalmente sentire.
 
In attesa di quel giorno, che ci impegniamo a raggiungere il prima possibile, suggeriamo alcuni spunti:

  1. Valutazione. Lo diciamo chiaramente: noi non siamo contrari alla valutazione, ma siamo contrari agli Invalsi per gli studenti, al preside che nelle scuole superiori giudica i professori sulla base del loro grado di fedeltà e al VQR all’Università.
  2. Alternanza scuola-lavoro: non si può trasformare un’opportunità in sfruttamento del lavoro minorile. Per intenderci: collocare gli studenti di un istituto superiore a una cassa del mac donald o di un autogrill non ha senso, non può essere nello spirito della legge,
  3. Nelle scuole il primo obiettivo deve essere ridurre il numero degli studenti per classe. Con 27-30 alunni per classe non si può fare lezione, gli ultimi si lasciano indietro.
  4. L’articolo 34 della nostra Costituzione dice che il diritto allo studio non è una faccenda privata, ma è compito e dovere della Repubblica. Il primo obiettivo per le nostre Università deve essere quello di cancellare lo scandalo degli idonei non beneficiari, cioè di quei 50mila ragazzi che ogni anno hanno diritto a borse di studio che non vengono erogate per mancanza di fondi.
  5. E poi, infine, i beni culturali. Ieri abbiamo ascoltato decine di proposte, altrettante grida di dolore. Io la dico così: apriamo una campagna di ascolto a partire dalle biblioteche di paese, dalle realtà più piccole che sono la nostra spina dorsale. E poi spingiamoci fino al vertice delle Sovrintendenze, degli Archivi di Stato, dei Musei. Chiediamo a loro, convochiamo il personale, dirigenti, impiegati, operai e chiediamo loro una o due proposte. E poi cominciamo a tessere su quelle. Ripartiamo da lì. Ripartiamo – come ci ha insegnato Berlinguer – dalla gente, dalla nostra gente.

E ricostruiamo un pensiero, un’analisi, un programma che dica quel che la sinistra vuole dal suo futuro, dal futuro dell’Italia.
 
Grazie.

Simone Oggionni

http://www.reblab.it

Sono nato nel 1984 a Treviglio, un centro operaio e contadino della bassa padana tra Bergamo e Milano. Ho imparato dalla mia famiglia il valore della giustizia e dell’eguaglianza, il senso del rispetto verso ciò che è di tutti. Ho respirato da qui quella tensione etica che mi ha costretto a fare politica. A scuola e all’Università ho imparato la grandezza della Storia e come essa si possa incarnare nella vita dei singoli, delle classi e dei movimenti di massa. A Genova nel luglio 2001 ho capito che la nostra generazione non poteva sottrarsi al compito di riscattare un futuro pignorato e messo in mora. Per questo, dopo aver ricoperto per anni l'incarico di portavoce nazionale dei Giovani Comunisti e avere fatto parte da indipendente della segreteria nazionale di Sel, ho accettato la sfida di Articolo 1 - Movimento democratico e progressista, per costruire un nuovo soggetto politico della Sinistra, convinto che l’organizzazione collettiva sia ancora lo strumento più adeguato per cambiare il mondo.

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