“Lucio Magri. Non post-comunista ma neo-comunista”. E’ questo il titolo del libro di Simone Oggionni, giovane scrittore e responsabile cultura di Articolo 1, pubblicato da EdizioniEfesto. Nel suo lavoro, corredato da una presentazione di Luciana Castellina, da una postfazione di Famiano Crucianelli e da una lettera che Jean Paul Sartre inviò a Magri, l’autore ha voluto percorrere, a dieci anni dalla sua drammatica scomparsa, la vita di uno dei prestigiosi dirigenti e intellettuali della sinistra italiana.
D. Nel tuo libro emerge con forza un Lucio Magri attivissimo prima nella Dc e dopo nel Pci, sempre desideroso di andare controcorrente, insomma di essere un eretico. C’è dunque un filo rosso che tiene unite queste due esperienze politiche?
R. Penso proprio di sì. Quello di Magri è un percorso che a me pare impregnato di una coerenza cristallina, non soltanto negli anni
Cinquanta e Sessanta, e cioè nelle due esperienze che tu citi nella Dc e nel Pci, ma anche successivamente, dallo strappo del
Manifesto al Pdup, fino al ritorno nel Pci e ancora oltre. Ci tengo molto a sottolineare questo aspetto, perché spesso si è sostenuto il contrario. Io invece ritengo che si snodi, nella lunga esperienza politica di Magri, la traccia di un percorso di ricerca e di militanza che si sviluppa sempre intorno agli stessi assi. Il
dialogo tra cattolici e comunisti, la proposta di un’idea di rivoluzione interna alla storia dei comunisti italiani e allo stesso
tempo in dialogo con il meglio della cultura critica europea e mondiale, il tema della pace e del disarmo, lo studio delle linee di tendenza e di sviluppo del capitalismo, il rapporto con i movimenti, il ruolo del partito.
Va da sé che un’intelligenza così acuta e una personalità così autonoma non potevano che entrare in rotta di collisione con l’ortodossia. Sia nella Dc – emblematico è il suo rapporto con Fanfani, di cui parlo nel libro – sia nel Pci, a partire dallo scontro con Amendola al convegno del Gramsci sul neo-capitalismo nel
D. Malgrado la radiazione dal Pci avvenuta per il differente giudizio sul’invasione della Cecoslovacchia da parte delle
truppe sovietiche, Magri considerò sempre i comunisti come un punto di riferimento irrinunciabile. Possiamo considerare questo come un valore aggiunto rispetto agli altri partiti collocati a sinistra del Pci?
R. Assolutamente sì. Magri rompe con il Pci nel 1969 per due ragioni: per un dissenso radicale nei confronti di un partito che non raccoglie gli stimoli che Togliatti aveva consegnato negli ultimi anni (il Memoriale di Yalta ma non solo) e che non capisce fino in
fondo le novità che il Sessantotto indicava alla sinistra italiana ed europea. E anche, come tu ricordi, per la questione cecoslovacca. Ma per tutto il quindicennio che lo separa dal ritorno nel Pci nel 1984, Magri continua, con grande intelligenza politica, a predicare e praticare un atteggiamento di grande apertura nei confronti del Pci. Eccezion fatta per i primissimi anni successivi alla radiazione, nei quali vi è una difficile e alla fine dei conti infruttuosa
frequentazione della galassia dei gruppi della nuova sinistra, è sempre presente, anche nell’autonomia, la ricerca costante di un dialogo e
di un rapporto con il Pci. Anche in questo sta la straordinarietà di Magri e del suo approccio: fuori ma a ridosso, sempre riconoscendo e rispettando la dimensione di massa e il consenso
popolare di cui godeva il Pci, sempre spinto dall’ambizione di rifondare su basi più avanzate l’area comunista italiana. Il Pdup di Magri è per sua stessa, esplicita ammissione un partito transitorio. Che nasce per essere lievito di una ricomposizione più avanzata.
D. Nel libro descrivi bene il graduale allontanamento di Magri dalla politica attiva successiva alla rottura con Rifondazione
comunista e alla nascita del movimento dei Comunisti unitari che poi confluirono nei Ds. Possiamo considerare questo come un episodio che anticipava la sua drammatica constatazione
che un mondo stava ormai per scomparire?
R. Sono convinto che occorra tornare indietro ancora di qualche anno. A quel seminario ad Arco di Trento con cui nel settembre 1990,
dopo il congresso di Bologna e prima di quello di Rimini, si prende atto dell’impossibilità di tenere unito, in un’unica prospettiva, il fronte che si era sin lì opposto alla svolta di Occhetto. Ingrao
rimane nel gorgo e Cossutta annuncia la rottura. Quel seminario, l’esito di quel seminario, segna un punto di non ritorno sia nella storia della sinistra italiana sia nella percezione della politica e del suo ruolo in essa da parte di Lucio Magri. Lì si infrangono le speranze di contrapporre alla svolta di Occhetto una proposta forte, credibile ed egemonica. Gli sviluppi successivi, compresa la storia di Rifondazione, sono a
valle di quella sconfitta. Del resto, come tu dici, è l’inizio della scomparsa di un mondo. Crolla il Muro di Berlino, si scioglie il Pci e non nasce dalle ceneri di quell’esperienza nulla che possa rivendicarne l’eredità. Da una parte un soggetto moderato, che avanza sul piano inclinato che porterà al Partito democratico.
Dall’altra esperienze radicali ma prive della sufficiente massa critica per trasformare i principi in proposte. Magri lo sa, ne è
consapevole e vive l’assenza di un soggetto politico all’altezza come un cruccio che politicamente lo divora.
D. Proprio in virtù di questa fortissima disillusione e ancor più della morte della moglie Mara, Magri decise di avvalersi del suicidio assistito reso possibile dalla legislazione svizzera. Come se non avesse più la forza di riprendersi da episodi così tragici lui che aveva dimostrato una grande energia nelle sue innumerevoli battaglie della vita. E’ sempre difficile se non impossibile
giudicare gesti del genere. Ma tu che impressione nei hai tratto parlando con chi gli stette vicino fino all’ultimo?
R. È proprio impossibile giudicare. E anche se lo fosse, non lo farei. Avverto tutta la forza e la drammaticità di ciò che è imponderabile. Se devo esprimermi, penso che avesse ragione Valentino Parlato nel cogliere, in quella sua scelta, quella stessa mescolanza di razionalità pura e di passione che ne ha segnato la vita intera. In quella scelta c’è tutta la cifra umana e politica di una fiducia intransigente nella ragione, sempre però accompagnata da uno
slancio, da un impeto di generosità sentimentale, di amore per le idee e per le donne e gli uomini che le esprimono. Non so come dirlo meglio, ma la presa d’atto di questa malinconia definitiva e insopportabile è stata consapevole, avvertita, non un abbandono, a un altro modo di affermare le proprie ragioni.
di Vittorio Bonanni
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di: Franco Astengo,