Qualche sabato fa ero al Teatro Sociale di Bergamo per seguire l’intervento del Segretario del PD al lancio della campagna per il Sì al Referendum Costituzionale di Ottobre.
Abito in città ed ho voluto cogliere l’occasione di assistere di persona ad una sua uscita pubblica. Leggerne le dichiarazioni e i tweet o assistere in tv a discorsi e interviste non è come vederlo dal vivo, per farsene un’opinione soggettiva ma completa.
In quell’occasione ho visto e ascoltato un uomo irritato.
Dalle sue parole emergeva la figura di un rivale per lui ben definito, visibile, reale: parlava come se lo avesse di fronte e indicando l’aria davanti a sé, lo additava al pubblico, perché ne condividesse il disprezzo. Abilità d’attore consumato.
Non esibiva la preziosa diversità del sicuro bene comune, ma mostrava l’ infelice biasimo per il supposto male di tutti.
L’Italia che dice ‘No’ e la parte del PD che non ce la fa a dire ‘Sì’. Sono parole sue.
‘Sì‘ e ‘No‘, le cellule primordiali della conversazione.
In quel momento ho pensato: se mai ci fu l’ istante zero della parola, possiamo immaginare che fu appunto un “Sì”. Oppure un “No”.
Che si trattasse di un primate in evoluzione o Adamo di fronte ad Eva, o lei verso lui, possiamo credere che per scambiare un suono dopo un qualche gesto, per quegli esseri questo significasse “Sì, ti accetto vicino a me” e subito dopo, forse, “No, non così vicino”.
Possiamo immaginare anche il contrario: prima un “No, non così vicino” e poi un “Sì, così va bene”.
In entrambi i casi, anzi nel viluppo di tutte le possibili combinazioni di ‘No’ e ‘Sì’ pronunciati da uno o dall’altro, sia il ‘No’ sia il ‘Sì’ furono segni di un dialogo e di una partecipazione, esattamente perché potevano scambiarsi di ruolo e di posto e portavano ad unirsi o a separarsi in affinità, senza più ricorrere alla muta clava, all’atto di forza o allo spaventevole urlo.
Forse vennero pronunciati, in quel chiaro giorno della notte dei tempi, proprio per questo: per dare con la parola al singolo individuo il potere che l’atto di forza compie solo in parte al servizio dei sentimenti e del pensiero.
Il ‘Sì’ e il ‘No’ del Teatro Sociale, invece, sono un altro tipo di ‘Sì’ e di ‘No’. Esistono ed hanno la loro collocazione e il loro impiego anche altrove e in altri.
Una loro modalità che il Primo Ministro non ha certo inventato, ma che usa con mestiere. Pongono, pronunciati così, un limite che esclude l’incontro e lo scambio. Sono espressi, nel suo personale immaginario che lui proietta sull’Italia intera, da soggetti in lotta che dicono ‘Sì’ e ‘No’ ad una scelta di parte, e su questa si dividono.
‘Sì’ e ‘No’ che si ripetono ad ogni passaggio dell’azione di governo. ‘Sì’ e ‘No’ che nel Referendum hanno trovato lo spazio per svelarsi apertamente in ogni luogo possibile, fino alle cassette della posta di quattro milioni di famiglie raggiunte dalla cartolina del selfie di massa, ma come tizzoni ardenti covano sotto cenere e a tratti emergono fin dal primo giorno della nuova era del farSi.
Espressi così, sono solo formalmente la radice del dialogo arcaico che ha aiutato a dare vita alle comunità, ma in verità realizzano il culmine della comunicazione unidirezionale.
Sono ancora ‘Sì’ e ‘No’, ma è evidente la loro trasfigurazione dal dialogo virtuoso alla trasmissione arida. Dico ‘Sì’ o dico ‘No’. Uno per volta. Dimmi ‘Sì’ o dimmi ‘No’. Non insieme. Non voglio vederli toccarsi. Non voglio sentire altro. Sì, maestro.
O con me o contro di me. Triste memoria.
E ho visto tanti quel giorno al Teatro applaudire e tifare quel messaggio, quel sacrificio dell’affinità.
Quella scelta di solitaria influenza. Come il grido di battaglia, come il canto da stadio: pronunciato da molti in imitazione e in soggezione unisona col capo. Normalità della Arendt.
Può sembrare un dettaglio, ma non lo è. Una riforma della Carta Costituzionale dovrebbe garantire tutti ed incontrare un favore ampio in Camera e Senato e nel Paese, perché non è pensabile che una Costituzione si modifichi per opera di un esecutivo appoggiato solo dalla sua maggioranza. Anzi, non dovrebbe nemmeno essere proposta e sostenuta da un Governo, ma nascere e articolarsi in Parlamento o in un apposito organo rappresentativo di tutti, costituito per quello scopo.
Se così non fosse, e così non è, ogni Governo avrebbe, e avrà se non si cambia, il diritto di varare una propria Carta, con i rischi concreti che per il futuro possiamo ben immaginare perché nella storia li abbiamo già visti concretarsi in atroci fatti reali. Invece anche lì si è ripetuto il paradigma del Sì.
Così, nell’intreccio di Affinità-Realtà-Comunicazione, mi è venuto in mente uno schema noto di una nota organizzazione laica i cui principi ho avuto modo di incrociare qualche tempo fa, senza condividerne molti e per questo non la cito apertamente, e che spiega la comprensione reciproca come il risultato del buon amalgama di questi tre elementi.
In sostanza insegna, e io questo approvo, a vedere chiaramente la relazione fra le tre componenti perché ognuna dipende dalle altre e senza una non si danno nemmeno le altre due.
Senza affinità non c’è vera comunicazione e senza comunicazione vera non c’è realtà condivisa.
Così come senza realtà condivisa non ci sono comunicazione ed affinità e senza comunicazione vera -‘Sì’ e ‘No’ che si intrecciano scambiano dialogano- non ci sono affinità e realtà.
Ecco, ho pensato in chiusura: forse a quest’uomo, dal principio o dalla fine, manca il senso della realtà. Quella che sta fuori dalle stanze di partito, dai social e dai teatri.
E lo fa perdere a molti.
Forse dovremmo cambiare maestro.
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