Esse - una comunità di Passioni

Partito e Lavoro: un primo contributo

Pettirossi ed Esse danno un contributo al dibattito, insieme.

Il testo è stato scritto prima del voto e il suo significato, noi crediamo anche la sua forza, sta esattamente in questo: nel rimanere a distanza dalla contingenza, da quel quotidiano che appassiona e a arrovella rispetto alle collocazioni e ai posizionamenti. Riteniamo che il nostro partito abbia bisogno soprattutto di altro: di una riflessione sui fondamentali e sulla strategia. Pur avendo tra di noi provenienze diverse, abbiamo molto in comune dal punto di vista della cultura politica. Questo è il significato di questo testo.

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Ci aspettiamo molto dal nostro primo congresso e da Sinistra italiana. Abbiamo la percezione, forse la consapevolezza, che questa volta non sia più possibile sbagliare. Lo diciamo noi che, per età anagrafica ed esperienza politica, abbiamo avuto sin qui le minori responsabilità. E tuttavia vediamo in sequenza errori e sconfitte, al cui protrarsi non siamo più disposti a contribuire. Troppo gravi le diseguaglianze di questa società, troppo acuta la crisi, troppo soli i lavoratori e con essi vasti settori sociali privati – a causa degli errori e delle inadeguatezze della sinistra – di una rappresentanza politica credibile: sentiamo di non poter sbagliare più. È necessario quindi partire con il piede giusto, avviare una fase costituente che affronti e chiarisca in premessa alcuni nodi di fondo.
Ce lo aspettiamo da noi stessi e da questa comunità ormai in cammino: chiudere velocemente la fase delle alchimie politiciste, degli accordi pattizi tra pezzi e pezzettini e aprire la fase del confronto democratico e della riflessione politica, consegnando fino in fondo la sovranità del processo ai territori e a ogni singolo aderente.
Scegliamo due snodi, per noi decisivi.

 

Il primo è quello del partito, cioè del soggetto che vogliamo costruire. Dobbiamo guardare in faccia la storia della sinistra degli ultimi trent’anni. In nome di un malinteso concetto di modernizzazione della politica e delle sue forme, la sinistra italiana ha, nel corso degli anni, perso gran parte della propria capacità organizzativa. Si è progressivamente guardato al partito come al contenitore di istanze e pulsioni espresse dalla società civile, elevandone gli umori a bussola dell’iniziativa politica. A volerne dare una definizione, potremmo parlare di partito-barometro, non interessato ad esprimere un disegno e quindi incapace di mobilitare e indirizzare impegno e passioni di una comunità politicamente connotata.
Esso si limita a registrare, constatare, prendere atto. Non si propone grandi obiettivi, ne fissa di piccoli e contingenti via via diversi.
Perde qualsivoglia forma di ancoraggio e di radicamento popolare, smarrendo ogni funzione di rappresentanza politica nelle contraddizioni sociali ed economiche del nostro tempo.
A fronte di questo cambio di prospettiva, si sono adeguate progressivamente anche le forme. Si è affermata l’idea del partito leggero, in cerca essenzialmente di un voto di opinione. Le ramificazioni territoriali, mutualistiche ed associative sono state via via smantellate.
Parallelamente, la militanza è stata svuotata di senso. I congressi sono stati sostituiti da plebisciti, i gruppi dirigenti dai leader e dai loro staff. Come i corpi intermedi nella società sono stati dimenticati, così le strutture territoriali dei partiti della sinistra sono diventate periferiche, masse di manovra cui chiedere una delega in bianco a ogni congresso o a ogni elezione.
Anche qui nasce la sfiducia e la disaffezione nei confronti della politica e dei partiti, che appaiono corresponsabili dell’involgarimento del dibattito pubblico.
Forze improvvisate ed eterogenee – siano esse il frutto di fusioni a freddo di tradizioni differenti o cartelli elettorali finalizzati al superamento delle soglie di sbarramento – hanno preso il posto dei progetti politici di ampio respiro, in grado di parlare al Paese e di avanzare proposte di cambiamento.
A fronte di un quadro tanto disastrato, battersi per la ricostruzione di uno strumento radicato di partecipazione popolare è l’unico modo serio di reagire al deperimento della qualità della nostra democrazia.
Abbiamo bisogno però di uno strumento che abbia consapevolezza del forte bisogno di innovazione e di autoriforma. Non sarebbe sufficiente riesumare modelli del passato.
Indichiamo allora alcuni assi, da calibrare e adeguare a tempi in cui cambiano necessariamente i linguaggi, le modalità di intervento, gli stessi strumenti politici (si pensi a internet e a quel che può significare, come strumento di intervento e di elaborazione, la piattaforma digitale).
Pensiamo innanzitutto al partito come intellettuale collettivo, come centro di elaborazione politica e intellettuale. Per ricostruire in primo luogo un punto di vista autonomo sul mondo e nel mondo. Ma, anche, per rispondere a una necessità politica impellente: basare il programma con cui ci presenteremo al Paese non tanto sui frutti di tavoli di lavoro convocati in maniera episodica in occasione di eventi nazionali, ma su di un’iniziativa politica strutturata e permanente. Centrale, da questo punto di vita, deve tornare a essere il lavoro di inchiesta e di ascolto del territorio, delle sue istanze e dei suoi problemi. Solo così il partito può diventare megafono di difficoltà che altrimenti rimarrebbero inascoltate.
Allo stesso tempo, è indispensabile tornare a intendere la formazione come uno strumento di ricerca e di elaborazione intellettuale. Immaginiamo appuntamenti fissi e indipendenti dalle scadenze elettorali e congressuali, in grado tanto di contribuire fattivamente alla definizione di una cultura politica all’altezza delle sfide che abbiamo davanti, quanto a fornire concreti strumenti di lotta in un’ampia pluralità di materie. Si tratta, in breve, di concepire la formazione politica come uno dei principali canali di elaborazione e vitalità dell’organizzazione.
Parallelamente, pensiamo anche a un lavoro periferico, fondato sul confronto con le parti sociali e i mondi dell’associazionismo e del civismo. Tale confronto non dovrà certo consistere nella mera raccolta di istanze e rivendicazioni. Dovrà invece consistere in un’opera di filtro, sintesi e arricchimento politico di esse, nel quadro dell’autonoma definizione della funzione nazionale che ci proporremo di svolgere.
Un partito radicato, dinamico, che vive in presenza, in ogni città e paese. Dotato di organismi dirigenti rappresentativi, non pletorici, in grado di renderlo nel territorio uno strumento di democrazia radicale, non certo l’emanazione burocratica della volontà del comitato centrale.
Un partito in grado di rappresentare il principale strumento per battaglie politiche e sociali, capace di incastonare istanze, battaglie e progetti nell’idea di Paese che ha in testa, e che vive nella pluralità di uomini e donne che lo compongono. Capace, inoltre, di muoversi sul doppio livello della società e delle istituzioni.
A quest’altezza si colloca l’esigenza di fare del partito, nelle sue strutture territoriali, anche uno strumento concreto di solidarietà e auto-organizzazione. Fasce crescenti di popolazione dispongono di servizi sempre più scarsi, sono sempre più sole. Il loro bisogno di emancipazione deve potersi esprimere a cominciare da luoghi in cui incontrarsi, discutere, confrontarsi.
Siano le nostre sezioni luoghi in cui, ad esempio, studiare in mancanza di biblioteche (anche dove esse ci sono, spesso restano aperte poco e non nell’arco dell’intera settimana). In cui, anche, si possa trovare un iscritto medico, commercialista o avvocato disposto a offrire la propria professione a chi non potrebbe accedervi. In cui si sperimentino forme di acquisto solidale, di banca del tempo, pratiche di solidarietà e di mutuo aiuto.
Il mutualismo deve essere una delle chiavi attraverso cui recuperare credibilità, logorata oltre ogni ragionevole misura dagli innumerevoli aggregati della sinistra radicale nati e periti in questi anni.
La liquefazione dei rapporti sociali e la sfiducia nella politica non si contrasta soltanto con analisi ferrate, ma con una presenza attiva nei luoghi in cui esse si manifestano con maggiore pervasività.

 

 

Il secondo snodo ha a che fare con il lavoro. Non possiamo immaginare una forza politica di sinistra che non si misuri con la necessità di ricostruire una connessione, sentimentale e culturale, prima ancora che politica, con il mondo del lavoro. Si tratta di un terreno decisivo, in cui si misura la stessa identità del partito che vogliamo costruire. Un soggetto che fosse ambiguo o incerto rispetto alla necessità di ricollocare nel mezzo del lavoro le proprie radici sarebbe, dal nostro punto di vista, semplicemente inutile.
È precisamente ciò che è accaduto negli ultimi tre decenni nella sinistra italiana: la perdita del rapporto con il lavoro e i suoi luoghi.
Certo, il mondo del lavoro in questi anni è profondamente cambiato. Appare oggi disintegrato, subappaltato, esternalizzato. Frammentato e decentrato dal punto di vista della produzione e centralizzato dal punto di vista della proprietà del capitale.
Il mondo del lavoro è stato riplasmato dall’incontro con il digitale, e la sua flessibilità concorre ad accrescere sempre più il peso della conoscenza e dell’autonomia, in cui si diffondono relazioni industriali ad alta individualizzazione, che alludono al superamento della contrattazione collettiva e alla compressione del principio della rappresentanza.
Tutto questo ha privato le società occidentali della funzione aggregatrice e omologante in precedenza avuta intorno e all’interno delle fabbriche fordiste e che tuttavia non evapora, come vorrebbero alcune culture o suggestioni post-moderne.
Il lavoro (e il suo conflitto con il capitale) è ancora lì, il centro e il motore del sistema capitalistico.
Il nostro compito è riaggregarlo, ridefinire le categorie, provare a riunificare all’ombra di un progetto politico condiviso, e di esse rappresentativo, parti oggi divise, quando non in conflitto tra loro: le nuove partite iva e le tute blu, i giovani architetti e gli artigiani, i precari della conoscenza e i lavoratori stagionali, il popolo del voucher e i dipendenti del pubblico impiego. Fornire loro una sponda politica e un punto di riferimento in grado di rappresentare i loro interessi e di contemperarli con quelli delle parti produttive dell’impresa e dell’imprenditoria nazionale, all’interno di un nuovo patto di sistema che punti a trasformare, tramite il governo, il nostro Paese.
Questo è il compito di una forza di sinistra moderna, in grado di dotarsi di un programma efficace e credibile.
Del resto, il disancoraggio dal mondo del lavoro è stato accompagnato – con il centrosinistra al governo – da politiche di flessibilizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro e di dismissione del patrimonio industriale del Paese.
Da una parte le riforme che, dal pacchetto Treu in avanti, hanno progressivamente aperto la strada alla contrazione del sistema di tutele e diritti; dall’altra parte la lunga teoria di privatizzazioni e svendite delle industrie pubbliche, da Telecom ad Alitalia, da Enel ad Ansaldo, da Eni ad Autostrade, e la cessione di quote significative di controllo di gruppi industriali a società o holding straniere. Si è trattato quasi sempre di operazioni vantaggiose per il capitale italiano che ha venduto (spesso senza reinvestire) e che si sono concluse con un ridimensionamento non solo quantitativo della forza lavoro: esuberi, licenziamenti, delocalizzazioni e conseguenti chiusure di stabilimenti e punti vendita.
Tutto questo – giova ricordarlo – dentro un quadro economico e produttivo che frana ogni mese di più.
Basterebbe frequentare di più le nostre province del Nord e contare i capannoni delle piccole e medie imprese che chiudono, ascoltare i lavoratori in mobilità e in cassaintegrazione. Per poi recarsi nel Mezzogiorno: intere regioni a rischio desertificazione industriale. Regioni da cui si emigra, nelle quali si è sempre più indigenti (+40% di famiglie povere nell’ultimo anno) e senza lavoro (il numero degli occupati è tornato al livello del 1977). Regioni nelle quali gli investimenti si dimezzano in cinque anni e i consumi delle famiglie crollano di quasi il 15% nel medesimo arco di tempo.
Da qui si deve ripartire. Dall’urgenza di dotare il nostro Paese, dopo trent’anni, di una politica industriale seria, di una strategia nazionale in tema industriale, che individui le priorità e determini gli orientamenti, incidendo direttamente anche nella dinamica dell’occupazione.
Il punto di partenza è allora uno solo: tornare a collocare lo Stato al centro dell’economia e della creazione del lavoro. È lo Stato a dover svolgere il ruolo di imprenditore e di innovatore, promuovendo iniziative virtuose, programmando opere pubbliche necessarie, pianificando investimenti produttivi strategici a sostegno dell’innovazione tecnologica e della produzione di qualità. Ciò, ad esempio, anche attraverso un impegno statale per la riconversione ecologica delle aziende inquinanti e un recupero e un risanamento del patrimonio edilizio esistente, finalizzati all’ottenimento di costruzioni sicure, igieniche, a basso o nullo consumo energetico.
Inoltre, è necessario domandarsi chi debba pagare alcuni degli effetti della crisi. Una fabbrica che chiude per aprire all’estero deve restituire i finanziamenti pubblici ricevuti, che vanno concretamente impiegati per accompagnare il reinserimento al lavoro di chi, in questo modo, l’ha perso.
Mentre lavora alla piena e buona occupazione, lo Stato deve poi affrontare e risolvere il problema della indigenza e della povertà, imputabile alla precarietà del mondo del lavoro e ai bassi salari. Lo Stato deve garantire una continuità di reddito anche nei periodi di disoccupazione: va introdotto un reddito minimo garantito, inteso non come un reddito di sussistenza concesso a pioggia a prescindere dalle condizioni patrimoniali ma come un contributo mirato, legato a politiche attive di reinserimento al lavoro. Allo stesso tempo, va ripensato complessivamente un sistema di welfare efficace che consenta l’esigibilità del diritto a una vita degna a tutte e tutti, in primo luogo attraverso politiche abitative che rendano inderogabile il diritto alla casa.

Ma non deve essere l’unico impegno. Non esiste pianificazione che non affronti il tema dei salari, il cui aumento è la precondizione per una ripresa economica; quello delle pensioni e – complessivamente – il sistema di regole e tutele che dovrebbe normare i contratti di lavoro.
Dobbiamo imparare a interrogarci profondamente sui cambiamenti in atto nel mondo del lavoro, a partire dai nuovi ambiti di produzione (soprattutto nel terziario) dove in mancanza di riconoscimenti professionali e contrattuali generali migliaia di giovani altamente qualificati si trovano a lavorare in condizioni di ampio sfruttamento, sottopagati e senza i diritti basilari (il rispetto dell’orario di lavoro, la maternità).
Per questo motivo la cancellazione del Jobs Act e la riscrittura di un nuovo Statuto dei lavoratori, come ci suggerisce in questi mesi la Cgil con la Carta che è in discussione in migliaia di assemblee, deve divenire una delle priorità della nostra battaglia politica.
Insomma, partito e lavoro. Uno strumento e un tema da cui Sinistra italiana può e deve ripartire.

Associazione Esse

http://www.esseblog.it

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