A dispetto dell’indifferenza, spesso del disprezzo, che i nostri tempi riservano da un lato al passato e dall’altro alla riflessione storico-filosofica, giova riandare in maniera molto sintetica e schematica ad alcune categorie forgiate ormai secoli fa, ma ancora buone per descrivere alcuni aspetti del mondo in cui viviamo. Spesso, in questi giorni, si è parlato della riforma costituzionale proposta da Renzi e Boschi come di un pericolo: essa, secondo i detrattori, rappresenterebbe il rischio di una deriva autoritaria o almeno un pericolo per la nostra democrazia. Per esprimere un giudizio dettagliato sugli effetti che, in questo senso, la riforma costituzionale avrà qualora fosse approvata, si dovrebbe istituire una complessa riflessione giuridica, che però qui si può lasciar da parte. Ciò che sarà, prima di tutto, interessante comprendere è se oggi si possa ancora davvero parlare di democrazia, e in quale misura.
Non sarà una riflessione catastrofista o disfattista, non ci si abbandonerà a un nostalgico ricordo dei bei tempi andati; eppure è al passato che ci dovremo rivolgere per inquadrare la categoria della democrazia, magari cercando di farla reagire con la categoria, altrettanto fondamentale, di liberalismo. Le due categorie sono spesso – e, per qualche verso, a ragione – menzionate assieme; e c’è chi, come Norberto Bobbio, ha proposto che la loro vicinanza non sia solo accidentale ma essenziale: l’una non va senza l’altra. Democrazia e liberalismo, infatti, sono dimensioni che condividono almeno un assunto centrale: la legittimità del potere politico deve sempre fondarsi sul consenso degli associati. Da qui scaturisce una serie di riflessioni per cui mancando l’una, scompare anche l’altra e, viceversa, istituita l’una, compare anche l’altra.
Scavando nel pensiero che ha generato tali categorie, tuttavia, si possono rintracciare delle buone ragioni per differenziarle e distinguerle, almeno concettualmente; così ha recentemente proposto, per esempio, Stefano Petrucciani. Quando si parla di “liberalismo”, il riferimento fondamentale è John Locke, il quale, alla fine del XVII secolo, scriveva che la politica ha il compito di salvaguardare i diritti degli individui. Rimanendo con Locke, tali diritti fondamentali sono quello alla vita, quello alla libertà e quello alla proprietà: essi pre-esistono alla politica come tratto naturale di ogni uomo, inteso come proprietario e a prescindere dallo scenario in cui nasce. Quando parliamo di “democrazia”, invece, è doveroso considerare quanto scriveva Jean-Jacques Rousseau mezzo secolo più tardi: dovendosi sottomettere a un potere o a una legge per sopravvivere, gli individui conserveranno la loro libertà solo se si sottomettono al potere che essi stessi costituiscono e alle leggi che essi, in senso collettivo, si danno.
In altri termini, guardare al liberalismo significa affidarsi a un ancoraggio pre-politico e morale per l’individuazione e la difesa dei diritti degli individui: se la politica non rispetta questi diritti naturali, gli individui possono resistere contro il potere, anche ribaltandolo, scrive Locke. Parlare di democrazia significa, invece, concentrarsi sull’idea di una autolegislazione collettiva, ovvero di una definizione, in assemblea, del regime legale entro cui gli individui scelgono di vivere: agli individui non spettano diritti naturali nella democrazia di Rousseau, bensì solo quei diritti che, come collettività, riconoscono e attribuiscono a ciascun singolo.
In un senso il primato va ai diritti individuali, nell’altro alla sovranità popolare.
Come possono tornare utili oggi queste due categorie? Se si considera il liberalismo, questa nozione ha fatto molta strada da Locke a oggi, prima di tutto allargando il bacino dei diritti che ciascuno pretende gli siano riconosciuti nell’ambito politico. Non più solo i diritti di vita, libertà e proprietà: oggi, un liberalismo moderno ed egualitario può dedicarsi all’affermazione di diritti individuali in modo più complesso e articolato, perfino in senso sociale; si pensi, come esempio di diritto insieme individuale e sociale, al diritto a un reddito minimo.
Ma, a ben vedere, tali diritti, come oggi vengono intesi, non pre-esistono alla politica – com’erano invece i diritti naturali di Locke –, ma possono essere attribuiti e riconosciuti a ciascuno solo all’interno di un consesso politico. Insomma, siamo noi, prima in sede costituzionale e poi in sede di legge ordinaria, a darci i diritti. E, dall’altro lato, tale attribuzione politica dei diritti non significa che essi sono liberamente manipolabili a seconda delle paturnie degli individui: tali diritti sono anzi premessa fondamentale perché la discussione democratica si istituisca. Solo se riconosciuti nei loro diritti fondamentali, gli individui possono istituire la sovranità popolare la quale, a sua volta, serve per attribuire a ciascun individuo diritti nuovi o rivisti.
Ecco che, così, la netta distinzione che, leggendo Locke e Rousseau, si poteva tracciare tra liberalismo e democrazia viene almeno in parte a ricucirsi: tale differenziazione viene a essere sostituita da una complementarietà o, con Jürgen Habermas, da un circolo: nei Paesi politicamente più avanzati, democrazia e liberalismo si tengono assieme.
Tale circolarità, che bene si disegna sulla carta, è però un punto d’arrivo, un’immagine ideale di un meccanismo rotondo e ben oliato, ma soprattutto perfettamente equilibrato. La realtà è molto meno equilibrata.
Proprio oggi, infatti, l’aspetto più liberale del meccanismo politico pare funzionare ancora in modo piuttosto regolare e vitale: gli individui delle società in cui viviamo continuano a rivendicare diritti, a pretendere un benefico allargamento dei confini dei diritti loro riconosciuti: si pensi all’ambito bioetico, alla sfera della sessualità, e così via. Gode di minore salute, invece, l’aspetto più propriamente democratico, il lato della sovranità popolare: le trasformazioni dei media della comunicazione interferiscono di molto sul contatto democratico e sulla formazione di una volontà comune, ragionante e matura; in più, i sistemi rappresentativi godono di sempre minor credito e di sempre più scarsa credibilità; infine, una spiccata liquidità caratterizza il popolo sovrano, frantumando i presupposti fondamentali della democrazia nel senso di Rousseau, e al contempo lo “stato-nazione” è incapace di controllare le dinamiche, soprattutto economico-finanziarie, che animano lo scenario internazionale.
La democrazia, vista così, è già in pericolo, o comunque malaticcia. Volendo aggiungere una ulteriore categoria alla nostra riflessione, si potrebbe parlare del neoliberismo: quest’ultimo non è tanto una semplice riattivazione dei caratteri liberali di cui si è finora detto; esso è piuttosto una categoria di stampo politico-economico, per la quale le decisioni non sono più prese in ambito democratico, bensì in centri di potere sovranazionale, non democraticamente ma tecnocraticamente legittimati. Il pericolo che il neoliberismo rappresenta per la democrazia è prima di tutto rappresentato dai suoi aspetti più immediati: un mercato altamente competitivo le cui regole e non-regole sono imposte, anche dagli Stati stessi, come norme di vita a tutti i livelli. Ogni individuo è trasformato in un imprenditore di se stesso, privo di tutele e slegato da una trama sociale che non sia quella delle relazioni con altri individui imprenditori che perseguono il loro interesse privato.
Si può dunque provare a intuire come mai la richiesta di diritti individuali sia ancora molto vivace, mentre la democrazia, come condivisione e confronto politico, sia gravemente malata. La malattia è, oggi, quella neoliberista, che impone agli individui la ricerca del proprio particolare interesse in concorrenza con gli altri individui, lasciando che il confronto democratico sia soppiantato dall’imposizione di norme tecniche ed economiche, a partire da una razionalità diffusa che viene incarnata dagli Stati stessi.
Per comprendere se davvero la riforma costituzionale rappresenti un pericolo per la democrazia è necessario dunque comprendere, in chiave giuridica ma al contempo con profondità filosofica, se essa trasformerà la nostra Costituzione da carta per la tutela dei cittadini dal potere in un mezzo per il potere per assecondare l’infiltrazione neoliberista nella vita dei cittadini. La domanda, allora, chiede prima di tutto di comprendere se e come lo spazio di partecipazione dei cittadini alle decisioni che interessano la loro vita sia toccato e, magari, ristretto. Se non si generi uno squilibrio in favore del potere centrale, ovvero di quel nodo oggi capace di trasmettere e imporre agli individui i dettami del mercato finanziario internazionale. Non vale la pena addentrarsi nei tecnicismi giuridici, essendo già sufficiente osservare come questa riforma sia promossa dai suoi sostenitori: come un mezzo per la governabilità, ovvero per l’accelerazione dei meccanismi decisionali ottenuta inevitabilmente mediante una riduzione degli spazi di confronto e di discussione. La velocità, la governabilità: si tratta di nozioni che male si attagliano alla democrazia intesa come maturazione di un pensiero comune, e più adeguate alla descrizione di una macchina che deve correre, macinando a tutta forza gli ingranaggi. Ma gli ingranaggi siamo noi.
Continuando a non entrare nel merito più strettamente giuridico della riforma, un altro indizio sulla natura del progetto politico che la muove ci viene dal metodo con cui essa è stata formulata. L’iniziativa è governativa e non parlamentale: Calamandrei sosteneva che i banchi del governo devono essere vuoti quando si scrive la Costituzione, se si vuole che essa rappresenti con massima ampiezza lo spirito di un popolo e non il volere di una parte politica in competizione con le altre.
Ma è la campagna elettorale a mostrare gli aspetti più interessanti di ciò che oggi è la politica e di come la riforma voglia cristallizzare e conservare tutte le storture della politica odierna. Il confronto sui valori condivisi si è fatto scontro divisivo, il luogo principale del mettere in comune si è trasformato in ambiente di astio e la cooperazione è soppiantata dalla competizione strategica e truffaldina, proprio sul calco della competizione di mercato. Non c’è alcuna volontà di maturare un pensiero comune, o di intendersi: l’uso della ragione è posto al servizio del solo tatticismo. E il confronto è ridotto al solo scontro, ovvero a una conflittualità da cui emergerà un solo vincitore capace di esibire lo scalpo del nemico soppresso.
La Costituzione, che dovrebbe essere ciò che emerge da un lavoro collettivo, è divenuta campo di contesa tra parti come una questione politica tra le altre. Si riduce lo spazio, lento e mai definitivo, del dibattito, per cercare, sia nel metodo che negli effetti, un dibattito violento, fulmineo, il cui risultato sarà quello di incoronare un vincitore e mettere a tacere i perdenti. E d’altra parte questo chiede il mercato: l’instabilità, tratto essenziale della democrazia, non piace ai mercati, che – come ha annunciato la Banca d’Italia – non sono tanto preoccupati dall’esito del voto, quanto dal voto in sé. Il neoliberismo è allergico alla democrazia e promette di far penare chiunque dia priorità alle dinamiche democratiche, quale che sia il loro risultato finale. Non importa che questa riforma passi o meno: il 5 dicembre i mercati torneranno lieti e sereni; è il dibattito democratico, per natura perennemente precario, a irritarli.
Che fare, dunque? Recentemente, portando la propaganda fin dentro le università, il nostro Presidente del Consiglio si è trovato a rispondere a una studentessa che gli chiedeva cosa fosse per lui la democrazia. La domanda, ha affermato Renzi, avrebbe richiesto di risalire a Pericle; ma la democrazia di allora è molto differente rispetto a quella di oggi; perciò, ha proseguito, parleremo di Obama. Ha poi snocciolato una serie di luoghi comuni, dicendosi ispirato da un film da poco visto al cinema.
I riferimenti culturali non sono sicuramente dei più invidiabili; soprattutto se si considera il solito eloquio del tutto indifferente al pensiero nobile. Ed è un peccato, perché se solo fosse risalito fino a Pericle e ai suoi contemporanei e conterranei, Renzi avrebbe potuto parlare di come il dialogo fosse, già a quei tempi, strutturato: certo, in senso polemico, ossia come una contesa, come una gara a chi ritrovava l’argomento migliore; ma non in modo sofistico, non con il solo e modesto scopo di vincere la contesa, bensì con l’obiettivo di promuovere un progresso nella ricerca del vero o del giusto. Un progresso di cui avrebbero giovato vincitori e vinti, perché la contesa infine si riduceva a una operazione cooperativa, laddove i sofisti, gli strateghi del dialogo, volevano solo vincere ed esibire una vittoria, anche con argomenti fallaci e inconsistenti, purché fossero in grado di disorientare l’avversario.
Credo che da qui possa emergere una qualche risposta al “che fare?” – anche riprendendo alcune recenti riflessioni di Simone Oggionni su Huffington Post e di Francesco Postorino sul Manifesto. E credo che la via di uscita sia rappresentata dal dialogo laico, nel senso più ampio possibile. Un dialogo, cioè, non strettamente vincolato alle competenze scientifiche o razionali dei partecipanti, ma prima di tutto votato all’intesa reciproca. Poco importa, infatti, se tutti producono argomenti razionali, cognitivamente perfetti e ben formati, se il dibattito non è promosso da una volontà di comprendersi. Anzi, un dialogo strettamente vincolato agli elementi razionali e scientifici spesso corre il rischio di ridursi a una battaglia di posizione, alla lotta millimetro su millimetro, giocata sul terreno della persuasione retorica. Nascondendo le motivazioni profonde e comprensive, non potendo esibire la propria preferenza e la propria intima visione del mondo, ognuno giocherà la propria partita a carte coperte, costruendo le proprie argomentazioni come fossero una montatura per sostenere un bluff.
Abbiamo spesso esempi di tal fatta, e il dibattito aperto oggi sulla Costituzione è uno di questi: soggetti che, impegnati nel dibattito pubblico senza voler rendere visibile la propria intima prospettiva sulla realtà, ma fornendo molteplici argomentazioni per sostenere una propria tesi, riducono il dialogo a una competizione, dove vince il più persuasivo, il più abile sotto il profilo retorico, il più spettacolare. E ancora, individui che, non volendo rivelare il fondo culturale che muove le loro convinzioni, si impegnano nella semplice costruzione di castelli argomentativi, perfettamente razionali, ma utili solo a nascondere ciò che davvero vogliono e pensano.
È proprio da questo che si deve ripartire, allora, come pratica di resistenza rispetto alla competizione neoliberista oggi diffusa e imperante anche in politica: promuovendo un dialogo che non sia competitivo, ma collaborativo; e questo, a mio avviso, presuppone la prassi del “mettere in comune”. Si parli dunque di “bene comune” non come qualcosa che trascende e precede i soggetti, ma come l’esito della ricerca comune di soggetti co-implicati in una vita condivisa. Il bene comune come il risultato di una cooperazione sincera, onesta e modesta, dove tutti, a carte scoperte, cioè prestando la propria visione del mondo e accogliendo quella altrui, propongano elementi di progresso corredati dell’idea profonda e spesso a-razionale di futuro, perché siano oggetto di maturazione razionale e di composizione nel dibattito. È da qui, credo, che si deve ripartire. Da una dialogo in cui i partecipanti mettono in comune le proprie prospettive, non per imporle, ma per metterle al servizio della collettività.
Perché senza una prassi di prestito della propria prospettiva, e senza l’impegno a adottare la visione altrui, il dibattito si limita a una competizione che non rivela e non smitizza le altrui proposte di mondo, ma le rende granitiche e oggetto di difesa strenua e violenta. Un vero scontro tra ineffabili.
http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/index.php?s=crosato
Dottorando di ricerca in Filosofia politica. Collaboratore di Micromega: Il Rasoio Di Occam. Autore di: L'uguale dignità degli uomini (2013); e allora? (2014); Dialogare con il Solipsista (2015); Dal laicismo alla laicità (2016); Il non detto (2017).
La Sinistra, Politica Interna, Società,
di: Luca Rossi,
Cultura, La Sinistra, Politica Interna,
La Sinistra, Politica Interna,
di: Simone Oggionni,