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Ritorno da Idomeni. Ritorno alla “vita”

Il racconto di Sabrina Yousfi, di ritorno dalla Marcia #overthefortress. Pasqua, Idomeni

Abbiamo passato 17 ore in mare. Ad un certo punto sono uscita fuori a fumare una sigaretta; era notte e fuori era freddo. Per un attimo, solo per un attimo mi sono lasciata andare all’immaginazione. Ero nel bel mezzo del mare, su un gommone, terrorizzata. Il mare era nero pece, così come il cielo ed ero circondata da persone terrorizzate come me. Il mezzo ondeggiava pericolosamente ed era in balia delle onde, sul pelo dell’acqua. Io non facevo altro che tenere in braccio il mio bambino. Era buio e avevo paura. Quando mi sono ridestata stavo ancora fumando la sigaretta e sentivo ancora il bambino tra le braccia. Siamo nati da quella parte di mondo che, probabilmente, non ci farà mai provare la disperazione che ti spinge a compiere un gesto del genere. Le persone di Idomeni ci hanno lasciato un solo messaggio: aiutateci a renderci umani agli occhi del mondo. Eppure il patto UE – Turchia non ha nulla di umano; non vi è l’ombra di nessuna tutela dei diritti umani o del rispetto dei principi fondamentali dell’uomo. In Grecia sono stati creati questi “Hotspot”, altro non sono che campi militarizzati. La delegazione dell’ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione) è riuscito a penetrare quello di Neokavala con una ristrettissima delegazione. Ci hanno descritto un campo militarizzato, un campo in cui sono fisicamente presenti militari e forze di polizia, il quale direttore è un militare graduato. L’UNHCR è fisicamente presente in questi campi ed è, di fatto, complice di questo processo. E’ presente con un sostegno materiale ed ha persino montato le tende senza il telone inferiore a terra. Medici Senza Frontiere, fedele alla sua promessa, non ha accettato di occuparsi della parte sanitaria di queste “strutture detentive”, per cui in questo centro è presente la Croce Rossa Greca, con un contributo del tutto insufficiente: non dispongono di un pediatra, per cui i genitori devono accompagnare i bambini dal medico più vicino (minimo 2km di cammino) e pagare la somma di 25€. In questi centri riconosciuti (così come in quello non riconosciuto istituzionalmente di Idomeni) le domande di asilo politico e di recollocation possono essere presentate unicamente via skype, durante una sola ora a settimana.

Nel frattempo oggi l’accordo UE – Turchia ha ufficialmente iniziato le deportazioni, 200 persone provenienti da Iraq, Siria, Pakistan, Bangladesh. Si tratta di deportazioni a tutti gli effetti, perché non li stiamo riportando nel loro paese, stiamo portando curdi in Turchia, in territorio non sicuro e in un territorio che non tutela i diritti umani. Negli hotspot delle isole (dal quale sono state deportate queste prime 200 persone) ci sono “addetti” che stabiliscono chi ha il “diritto” di presentare domanda di asilo e chi no. Non so se il controsenso semantico di questa frase emerga, perché tutti i cittadini del mondo hanno diritto di richiedere asilo politico. Inoltre le nazionalità dei deportati sono Iraq, Siria, Pakistan, chi più di loro ha il “diritto” di richiedere la protezione internazionale? Il diritto di richiedere l’asilo politico dovrebbe essere talmente tanto radicato nei paese “civilizzati” che è come se ci stessimo arrogando il diritto di stabilire chi ha il diritto di mangiare e chi non lo ha. Anzi, non è come se. E’ proprio così: ci stiamo arrogando il diritto di stabilire chi deve vivere e chi deve morire.

La marcia #overthefortress si è posta degli obiettivi: non lasciare mai scoperti i punti sensibili della non accoglienza come Idomeni, il Brennero, Ventimiglia e Taranto. La marcia #overthefortress ha compiuto un piccolo miracolo. E’ stata in grado di unire 300 persone che non si conoscevano prima sotto una stessa bandiera, in un unico obiettivo, abbattere le frontiere e accogliere esseri umani, quali i rifugiati sono. I miei compagni di viaggio sono stati tutti meravigliosi, dal primo all’ultimo. Ho stretto amicizie importanti e fratellanze sincere che non spariranno mai, perché il ricordo di Idomeni, l’odore e la vista di Idomeni, non spariranno mai. Un ringraziamento particolare va a tutti coloro con i quali abbiamo condiviso minuto per minuto i silenzi, i pianti, le emozioni.

I rifugiati di Idomeni sono stati incredibili, ci hanno dato la forza che non avremmo mai avuto da soli, ci hanno fornito la speranza, quella speranza che non sparisce mai dai loro volti scavati, stanchi e affamati. I bambini di Idomeni ci hanno sempre regalato un sorriso e il loro inestinguibile desiderio di giocare, liberamente. Le persone di Idomeni ci hanno accolto calorosamente e non volevano lasciarci andare via. Le persone di Idomeni sono, soprattutto, delle persone. E qui il mio appello alla politica, ai movimenti sociali tutti, a chiunque stia leggendo questo articolo: date voce alle persone di Idomeni, date voce ai loro disperati appelli e soprattutto, difendiamo i diritti umani che questa Europa sta deliberatamente calpestando con il nostro appoggio. Siamo tutti complici di questo scempio, siamo tutti complici di questa deportazione e di questo nuovo olocausto. Non ha senso indignarsi e piangere per il piccolo Aylan, se non ci indigniamo per le migliaia di persone che stanno morendo nei loro paesi, se non ci indigniamo del fatto che stiamo deportando curdi in Turchia, dove sono già presenti 2.5 milioni di profughi.

Un’ultima parola, un’ultima riflessione va alla famiglia che ho lasciato a Idomeni e che spero di riabbracciare presto. Una famiglia curda siriana, nella voce di Mohamed, fuggita dalle barbarie e dalle morti della loro amata terra. Sono partiti in 5: la madre, il padre, Mohamed, la sorella e il fratello. Sono partiti in cinque dalla Siria, ma in Turchia hanno perso il loro meraviglioso padre, marito e sono giunti stremati in Grecia. Ora sopravvivono stremati a Idomeni. Ci sentiamo ogni giorno e ogni giorno lui mi parla della sua disperazione, della totale privazione di diritti nella quale lo stiamo lasciando vivere (come lui altre 14 mila persone solo a Idomeni). Nonostante lui sia gentile, nonostante io sia stata lì con loro ad aiutarli con una goccia in mezzo all’oceano, io mi vergogno. Mi vergogno di come i miei connazionali, di come i miei “con continentali”, li stiano lasciando morire lentamente all’ombra di un filo spinato.

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