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La sinistra è morta. Viva la sinistra!

Credibilità, risposte inedite e un'utopia: gli ingredienti per scrivere una storia nuova

Il risultato di queste elezioni – il peggiore per la sinistra dal dopoguerra ad oggi – risolve, volenti o nolenti, molte delle discussioni, perlopiù autoreferenziali, che abbiamo animato negli ultimi anni.

Il renzismo è finito.
La sua narrazione patinata – segnata dall’ottimismo delle opportunità, dalla velocità come valore, dal presunto pragmatismo delle scelte al di sopra di ogni conflitto sociale – si è schiantata definitivamente contro la realtà del Paese.
Un paese che in larga misura odia Matteo Renzi (e non solo lui, ma tutto ciò che evochi la vicenda della sinistra e del centrosinistra nella seconda Repubblica), che vive con paura e frustrazione le trasformazioni imposte dalla crisi e dalla globalizzazione, che non ha più alcuna fiducia nella politica e nelle istituzioni per come le abbiamo conosciute (un po’ per responsabilità, gravi, di chi ha governato in questi anni, un po’ per colpa della mistificazione della realtà operata nel senso comune tanto dai media tradizionali quanto dai nuovi canali di dis-informazione digitali).
Intorno a quell’idea di riformismo liberaldemocratico, à la Macron, può quindi resistere giusto una minoranza tutto sommato benestante, di reddito medio-alto, colta, europea.
Ben poca cosa, dunque, a maggior ragione se si considera che l’altra gamba di ciò che è stato il PD, lo storico elettorato di provenienza PCI – oggi in pensione – andrà assottigliandosi.

E tuttavia con il renzismo, com’è ovvio, si esaurisce anche lo spazio di azione dell’anti-renzismo.
Evapora l’illusione, cioè, di chi ha inseguito la rivincita, il ritorno ad una presunta età dell’oro, la riconquista – magari dall’esterno – di un Partito Democratico che ha mutato profondamente testa e anima.
E che, anzi, non solo per quel che è stato dopo l’avvento del “giglio magico”, ma anche per come è nato – già dal 2007 – ha finito per diventare quel che vediamo oggi.
E, parimenti, si è definitivamente esaurita la rendita di posizione, di un consenso elettorale conservato per inerzia, che ha permesso in questi anni al ceto politico della sinistra “radicale” di preoccuparsi più di consolidare la propria posizione contrattuale nel dibattito interno – in vista della puntuale costruzione di un nuovo cartello elettorale, quale è stato LeU – piuttosto che fare i conti con l’incapacità, sempre più accentuata, di pronunciare parole di un qualche significato, di dire qualcosa di più della ripetizione di slogan e principi sempre più astratti, sempre più generici, privi di mordente e alla fine utili solo a suscitare un fastidioso senso di déjà-vu.

Abbiamo, di nuovo, scambiato gli umori della bolla delle nostre discussioni – che non coinvolgono neppure l’elettorato della sinistra, ma solo i, ahinoi soliti, militanti e simpatizzanti attivi – con l’orientamento del Paese, delle donne e degli uomini che ancora sarebbero disponibili a combattere nel nostro stesso campo.

Non è mai esistito lo spazio politico del “quarto polo”.
Non c’era nemmeno un popolo che attendeva la nascita tardiva di un cartello elettorale per riconoscere una nuova e più credibile alternativa al PD di Renzi.
Lo dimostra il fatto che LeU registra i risultati migliori dove va meglio anche il PD. E viceversa.
E il fatto che milioni di elettori che non volevano votare per Renzi, o si erano rifugiati nell’astensione, siano tornati alle urne per sostenere il Movimento 5 Stelle o, in alcuni casi non marginali, perfino la Lega.

Come qualcuno aveva suggerito, nel No travolgente del referendum del 4 dicembre 2016 c’era sì, minoritario, l’orgoglio costituzionale della nostra gente. Ma c’era anche, e soprattutto, l’ondata regressiva che si è poi puntualmente riversata nella Lega al nord e nel Movimento 5 Stelle al sud.
A questo si è ridotto il consenso della sinistra: una manciata di province fra Toscana ed Emilia e i centri cittadini di qualche grande città (Milano, Torino, Roma).

E ora?
Trovare hic et nunc le risposte giuste da dare è sicuramente impossibile. Non lo è, però, individuare alcuni punti fermi da cui partire.

Il primo problema, in questo senso, è tornare ad essere credibili.
E siccome quel che si dice per gli altri deve valere anche per se stessi, i primi a farsi da parte dovrebbero essere Roberto Speranza e Nicola Fratoianni, che hanno costruito e diretto l’esperienza di LeU.
Dimissioni vere, irrevocabili, non offerte solo per qualche ora e per il gioco delle parti.

E, con loro, servirà il passo di lato anche dei padri nobili che hanno ispirato questa esperienza. Bisogna riconoscere che alcuni risultati hanno certificato, purtroppo e dolorosamente, la fine di una storia.
Senza alcuna lacerazione, con l’obbligo di riconoscenza per quanto fatto (e per aver compreso, nonostante tutto, quel che stava accadendo) e la generosità di continuare a dare una mano alla riflessione e al lavoro sui territori, lontani dalla prima fila.
Ma la sinistra ha bisogno, oggi, di essere diretta e rappresentata da una nuova classe dirigente, da donne e uomini che non portino con sé le responsabilità delle scelte compiute in questi anni.

Insieme alla credibilità, però, occorre anche recuperare la capacità di dare risposte.
La sensazione, ripercorrendo ex post il dibattito pubblico della scorsa legislatura, è che di fronte a tutte le questioni politiche di maggior impatto la sinistra si sia scoperta afona.
Europa e trattati, flussi migratori e integrazione, profonde trasformazioni (e rotture) del mondo del lavoro e del sistema produttivo, impoverimento drammatico di intere aree del Paese (si pensi al voto del sud o di larghe aree deindustrializzate).
L’esempio più clamoroso di questa difficoltà stava nel programma economico di LeU, dove si pretendeva di far convivere la ripresa degli investimenti pubblici, la creazione diretta di occupazione, l’aumento della spesa sociale (sanità, scuola, infrastrutture) con il rispetto dei vincoli europei sulla riduzione del deficit, dello stock di debito (ipotizzando un abbattimento vicino a quello proposto da +Europa della Bonino) e sul pareggio di bilancio in Costituzione.

Avevamo individuato il problema – di fronte alla violenza della globalizzazione o la sinistra protegge i lavoratori e la povera gente, o a quella domanda di protezione risponde a suo modo la destra – ma non abbiamo saputo pronunciare risposte adeguate.
Da questo limite dobbiamo ripartire, per fare una riflessione vera, alla radice dei problemi, sapendo che nessun assunto è più valido e che dovremo mettere in discussione molto di quel che siamo stati in questi trent’anni.

Protezione, dunque, da declinare con le nostre radici, coi valori di sempre di libertà, uguaglianza, solidarietà e inclusione.
Risposte concrete, efficaci nel modificare la condizione di vita materiale di milioni di persone – rispetto a cui determinate costruzioni economico/istituzionali producono strutturalmente impoverimento e disuguaglianze – e inserite però in un orizzonte più ampio che evochi l’altro mondo possibile.
Proteggere per far tornare a sognare, a riconoscere un’utopia collettiva verso cui sia possibile tendere, per cui sia bello e gratificante riconoscersi e battersi insieme.
Come si sarebbe detto un tempo: il pane e le rose.

Qui si colloca la discussione sull’Europa.
Per far sì che l’appuntamento del 2019 sia la tappa di un percorso costituente e non l’occasione per riprodurre la dinamica sterile del cartello elettorale, della somma dei cocci per superare – sempre più a stento – uno sbarramento.
Di fronte allo sconquasso delle famiglie tradizionali (l’inconsistenza transnazionale della Sinistra Europea – fino al paradosso di Mélenchon che propone l’espulsione di Tsipras – così come la crisi del Partito Socialista Europeo, arrivato a rinunciare anche alla sua denominazione in Parlamento), si pone la necessità di un salto in avanti, dell’elaborazione di un nuovo pensiero per la rifondazione del processo di integrazione europea, che metta in agenda il superamento delle feroci disparità fra stati e negli stati membri.
Dalle nostre parti l’intuizione migliore (purtroppo lasciata cadere) stava nel documento congressuale di SEL del 2014: la costruzione di un programma europeo come frutto di un’elaborazione collettiva, politica e culturale, che coinvolgesse socialisti, sinistra, verdi, movimenti sociali e sindacali.
Gli stati generali delle forze progressiste del continente, capaci – nel rispetto di ogni peculiare contesto statuale – di presentare un programma condiviso di politiche europee, e di politiche nazionali da realizzare nei rispettivi paesi, per salvare l’Europa e, in alternativa ai “populisti”, far tornare la sinistra ad essere popolare.
Perché non può essere la sinistra italiana, dove tutto ha avuto inizio nel 1957, a fare il primo passo in questa direzione?

Ed è a questa stessa altezza che dovrebbe collocarsi anche il dibattito intorno allo stallo parlamentare che si è creato dopo il 4 marzo.
Anche qui: la politica a sinistra sembra essere bandita, fra chi chiede di far partire un governo 5 Stelle purchessia e chi pensa sia utile spingere i grillini a destra, mostrandosi sprezzanti in primis verso i tanti elettori che ci hanno abbandonato (ma poi chi l’ha detto che chi ha votato 5 Stelle lo abbia fatto per avere un governo con Salvini?).
Una sinistra dotata di visione e proposte credibili, semmai, avrebbe la possibilità di spingere il Movimento 5 Stelle a collocarsi sul terreno del confronto politico.
Non è vero, come dice Di Maio, che tutti devono andare a parlare coi grillini. È il Movimento, se non vuole assumersi la responsabilità di far fallire la legislatura, che deve scegliere con chi dialogare.

Uscita dall’euro, vincolo di mandato, no vax e respingimenti/fake news contro le ong oppure reddito minimo garantito, Ius soli, investimenti pubblici fino al 3% di deficit e sviluppo sostenibile?
Se la sinistra sa fare il suo mestiere, è questo il bivio a cui deve portare i 5 Stelle.
Sapendo che qualsiasi “governo di scopo” dovesse esistere dovrebbe mettersi d’accordo sulla scadenza della legislatura, sul contenuto di almeno una finanziaria e quattro o cinque leggi e su chi siederà in Consiglio dei Ministri, con la consapevolezza che non esisterà nessun esecutivo pienamente politico frutto di un’alleanza stabile, e che in questa fase più la sinistra si allontana dalle “poltrone” e meglio è.

E, infine, lo strumento.
Perché se quanto scritto ha un qualche fondamento di verità, allora serve anche un’organizzazione per realizzarlo.
Per farlo ci vuole un partito. Quello che non c’è e non si è voluto fare quando era possibile, ma andava fatto senza paracadute e rendite di posizione (a fine 2014, fra il milione della CGIL in Piazza San Giovanni, l’approvazione del Jobs Act e la disponibilità di SEL – Human Factor – a sciogliersi in un nuovo e più ampio soggetto politico).

Fondato su una visione del mondo, su un orizzonte di trasformazione della società immaginato a partire dalla comprensione dell’oggi. Coinvolgendo gli intellettuali di ogni campo, dall’economia alla filosofia, con cui ricostruire una connessione feconda fra politica e cultura. Non per una convention estemporanea, ma per un lavoro, organico, di lunga lena.
In grado di non limitarsi a commentare la cronaca ma di imporre temi dirimenti nel dibattito pubblico. Scuotendo dalle fondamenta i dogmi del capitalismo occidentale: il primato della tecnica, l’esasperato individualismo, la retorica del merito e della competizione, la subordinazione del sapere alla monetizzazione di profitti, la proprietà privata di spazi virtuali sempre più pervasivi come il web e i social, la libertà di fare ogni cosa garantita a poche e sempre più grandi e concentrate imprese multinazionali.

Organizzato e costruito democraticamente. Strutturato e presente sul territorio, impegnato a mettere l’orecchio a terra nei quartieri, nelle periferie, nei paesi, più che ad animare discussioni egoriferite nelle nostre stanze.
Con leadership e linea politica legittimate dagli iscritti e, all’interno di una cornice di visione e valori comuni, contendibili.

Dopo un ventennio che ha visto mettere in pratica un gigantesco spostamento di ricchezza dai salari alle rendite e ai profitti, un partito capace di dare nuova forza a chi per vivere dispone solo del proprio lavoro e delle proprie conoscenze.
Che significa, il lavoro e il non-lavoro, andare a trovarli, in ogni pezzetto d’Italia, per conoscerli, comprenderli e costruire insieme le risposte che la politica può dare. Dagli operai dei grandi stabilimenti produttivi ai riders delle piattaforme di consegne a domicilio, dai ricercatori e i giovani professionisti a partita Iva a chi sopravvive fra lavoretti in nero e disoccupazione cronica.

Un partito che scriva una storia nuova.
Che sia la casa di tutte e tutti, che superi le organizzazioni oggi esistenti. E’ vero: serve un Épinay dei progressisti italiani.
Bene ha fatto ad invocarlo anche Nicola Zingaretti (unica nota positiva, il Lazio, nel disastro di queste settimane): un grande confronto, aperto, per la rigenerazione della sinistra.
Un passaggio fondativo, che archivi la dialettica renzismo/antirenzismo di questi anni e, con essa, superi le analisi scadute (sinistra liberal – sinistra radicale) degli ultimi trenta.
E’ una sfida che riguarda tutti: dalle assemblee di Liberi e Uguali al prossimo congresso del Partito Democratico, a chi è rimasto fuori dalla contesa elettorale del 4 marzo, alle grandi organizzazioni sociali della sinistra (a partire da ARCI e CGIL che nei prossimi mesi terranno i propri congressi).
Non attardiamoci in riti e liturgie autoassolutorie ed iniziamo allora ad affrontarla. Insieme.

Mattia Nesti

Classe 1992, studente di Economia all'Università di Bologna, giornalista. Devo la passione per la politica al movimento studentesco dell'Onda del 2008; da allora, e nelle molte esperienze successive, mi sono convinto che la nostra generazione abbia bisogno della sinistra, e di una buona e bella politica. Alle elezioni regionali del 2015 sono stato il candidato della Sinistra più votato nel collegio provinciale di Pistoia e alle elezioni amministrative del 2017 ho sostenuto la candidatura di Samuele Bertinelli guidando la lista Sinistra per Pistoia. Oggi sono uno dei coordinatori di Articolo 1 MDP Pistoia e membro della segreteria provinciale di ARCI.

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