Scrivere di Ennio Calabria è un privilegio.
Mi è capitato altre volte, ma oggi lo voglio fare in modo diverso.
Vorrei trasmettere, cioè, non un’idea o un insieme di idee su di lui e sulla sua ricerca pittorica ma piuttosto il senso fisico di una necessità: come mangiare, bere, respirare.
Parlo della necessità, anzi dell’urgenza di non perdere la grande retrospettiva ottimamente curata da Gabriele Simongini e allestita, come meglio non si poteva, con il contributo prezioso di Rita Pedonesi, che, fino al 12 gennaio, sarà visitabile al Museo di Palazzo Cipolla di Via del Corso a Roma.
Si deve correre a divorare questa mostra perché, semplicemente, non si può rinunciare al piacere corroborante, elettrizzante, ri-costituente (dicevano i vecchi medici condotti) che ti invade quando entri nelle grandi sale del museo romano e ti immergi nell’ampia selezione di opere offerta a testimoniare l’intero arco della lunga carriera del pittore di Tripoli.
Quanto questa sensazione, in un tempo di mortificante e sistematica banalizzazione estetica culturale e politica, possa essere “terapeutica” penso di poterlo dire, non solo da critico ed estimatore, ma anche e soprattutto da medico.
Che l’arte rappresenti una risposta formidabile, primordiale e metastorica all’angoscia che deriva dalla fatica di “vivere per dover morire” è tesi che più volte mi è capitato di enunciare e difendere, spesso in contrasto con chi dell’arte ha una visione diversa, succube di paradigmi interpretativi che con l’origine e la natura più profonda di essa hanno molto poco a che vedere.
Ebbene le oltre ottanta grandi, medie e piccole opere di Calabria, gli oli e i pastelli, le imponenti e mirabolanti composizioni, come i ritratti di lancinante salienza e i numerosi storici manifesti realizzati per la CGIL, ti avvolgono e ti sollevano, strappandoti per un po’ alle miserie e alle noie del quotidiano.
A farlo contribuisce, oltre alla qualità altissima della sua pittura, l’ardimento visionario e spregiudicato di chi falsifica sistematicamente la prospettiva lineare, come nota bene Alberto Olivetti nella sua rubrica settimanale su il Manifesto.
In questo senso Calabria è un pittore profondamente antirinascimentale. Un esploratore (un facitore) della Storia che va oltre un visione positivistica, razionale e rassicurante, per abbracciare piuttosto un punto di vista, o meglio una pluralità di punti di vista, in grado di prenderti e spingerti nella dimensione anomica di una realtà in cui oggetto e soggetto si confondo e il tutto (l’intero), magicamente, si ricompone.
E allora i vortici e gli azzardi prospettici del pittore nulla hanno a che vedere con un virtuosismo (seppure sorprendente) fine a se stesso ma, invece, realizzano un piano di micidiale efficacia.
Cacciare da noi l’umanissima ma povera cura del nostro guicciardiniano “particulare” per aprirci alla complessità del mondo e della storia.
Ecco, l’arte di Ennio Calabria è in grado di metterci, attraverso una prepotente sollecitazione dei sensi, nella condizione di aderire a quella sostanza infinita ed eterna di cui siamo modi ed espressioni particolari.
Ciò che gli orientali fanno con la meditazione e il distacco, questo pittore riesce a fare con la luce, la materia e il colore.
Provare per credere.
di: Guido Rovi,