Ho letto la notizia della nascita di Tobia non appena connessa ieri mattina. Sono stata contenta di quella notizia. Mi ha fatto piacere.
Devo chiedermi perché? Devo indagare le mie emozioni di fronte al tribunale del mio essere donna e di sinistra? Del mio combattere alienazione, sfruttamento, mercificazione?
Vi sembrerà strano ma non l’ho fatto. Vi sembrerò meno di sinistra, meno attenta, meno combattiva, ma non l’ho fatto.
Ho gioito per i due papà e per il bambino appena nato. I miei sentimenti erano buoni e affermavano il buono che Tobia mi evocava: due uomini che hanno lottato, che hanno avuto coraggio, che si sono immersi nel mondo iniquo e incivile che noi tutti siamo. Non si sono fermati sulla soglia del mondo; non si sono messi lì al margine ad osservarlo algidi e a giudicarlo. Ci si sono infilati in mezzo, al centro delle contraddizioni.
Evitiamo la contraddizione? La guardiamo dall’alto? Siamo forse Dei che abitiamo un mondo “pulito”? la realtà concreta del mondo ci fa ribrezzo e dunque ce ne guardiamo bene dall’immischiarcene? Facciamo critica, analizziamo, scandagliamo dentro il capitalismo mercificante, ci occupiamo di lavoratori e lavoratrici espropriati….certo, di sicuro, mai cedere sulla mercificazione. Ma da dove? Da quale punto di vista? Da quale roccaforte?
E intanto lo “sporco” del mondo sta là, ci si para di fronte, e così facendo nega granitico tutta la nostra “bella” e autentica e nobile critica.
Ritengo che la negazione debba essere determinata: non tutto e non a priori. Ma passo dopo passo dentro la contraddizione: a viso aperto di fronte alla specifica e individuale posizione alienante; nelle sue proprie maglie e non altrove; perché ogni determinazione è se stessa e non altre e va colta nella sua individualità: non in astratto, non estrapolandola dal suo proprio contesto, non facendo finta che di contesti ci siamo già occupati e quindi possiamo giocare la partita come fossimo su un campo noto e arcinoto, ne sappiamo le regole, sappiamo come giocare, e siamo anche bravi perché ormai avvezzi al gioco ed espertissimi.
No. Nessun gioco umano è uguale all’altro. Nessuna determinazione è uguale ad un’altra: non c’è da star quieti sul già saputo. Errore fatale. Come la determinazione anche la critica sarà volta per volta il “non già detto e saputo”. E’ il movimento della critica concreta che lo richiede: perché la critica è dentro la contraddizione, piegata da essa ad assumere una determinata forma e essa critica determinata piegherà ciò su cui agisce: lì nel mezzo. E dal mezzo si svolge mediazione e il nuovo che essa sarà.
Questo ho visto nella nascita di Tobia: una scelta determinata di fronte ad una determinata “cancrena” sociale.
Tutta nostra, italiana, ma non solo. Nostra l’incapacità di mediare fra appartenenze e nuove emancipazioni; incapacità di rompere il già dato; di penetrare nelle maglie del tessuto sociale e apportare in esso nuove e inedite voci; incapacità di mettersi in gioco di fronte a qualcosa che, dirompente, rischiava forse di rimescolare troppo le carte, di costringere a ripensare le regole stesse di un gioco non più in movimento, ma stantio e, appunto, cancrenoso.
E allora il singolo uomo non può che agire da singolo: entra nella contraddizione e tenta di superarla; cerca strade possibili, percorsi “fuori mano” forse, percorsi che quell’uomo sa quanto gli si ritorceranno contro, sa che sta sfidando gli Dei. Ma quell’uomo ama e agisce con l’amore e per amore: deve arrischiarsi in contesti crudeli, che spezzano afflati, che tolgono anche solo la speranza del Diritto.
Contesti che emarginano e discriminano. Che tolgono libertà. Contesti che si rifiutano di guardare i bambini soli, che li lasciano a deprimere entro luoghi che nulla hanno della “casa”, dell’abbraccio, della cura, dell’amore. Se i contesti non consentono, se le leggi bieche non consentono, allora vogliamo che la spinta dell’amore taccia? Che si arresti? Che castri se stessa? Oppure siamo sensibili verso quella spinta che è poi vita, la stessa che si vuole a tutti i costi difendere e mantenere? Possiamo provare a sentire quella spinta, quel desiderio così forte da osare.
Perché hanno osato e lo sappiamo. Poi domandiamo. Come si può esprimere un’opinione senza domandare? O siamo così presuntuosi da ritenere che l’altro sia in “nostro possesso”, lo abbiamo già capito, lo anticipiamo perché tanto sia sa dove voleva andare a parare, l’altro è prevedibile, cosa ci si poteva aspettare di diverso? Ecco io non sono d’accordo. Intanto l’uomo non è prevedibile, intanto non è in nostro possesso. E allora così come le determinazioni sono ciascuna se stessa e non altre, anche chi le critichi è se stesso e non altri: domandare per comprendere; domandare per rispettare; domandare per non dare nulla per scontato.
E alla fine della giornata ho letto dell’amore, ho letto di una scelta sofferta e costruita nelle relazioni che hanno costituito un sodalizio, una casa, un riconoscimento, un aiuto reciproco, uno stare insieme umano e, nell’umano, fragile, delicato, commovente.
E chi può dire che la delicatezza sia mercificazione? Chi può avere un sentire così granitico da non accorgersi della sensibilità che trasuda dalla nascita di Tobia?
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di: Franco Astengo,
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