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Lo spirito olimpico non esiste

Alex Shwazer: vittima dei poteri forti dello sport mondiale?

di: Francesco Cutugno,

31 Agosto 2016

Categorie: Società, Sport

C’è un atleta. Nella sua disciplina sportiva ha talento. Cresce, migliora fino a quando non arriva alle olimpiadi dove vince la medaglia d’oro. La sua stella è luminosissima, tanti amici, una vita sentimentale appagante, gli sponsor e tanti avversari che vogliono batterlo. Piano piano inizia ad essere raggiunto dagli avversari e allora si rifugia nella soluzione più semplice, la chimica viene in suo aiuto e le sue prestazioni continuano ad essere le migliori fino a quando qualcuno non si accorge dell’inganno. In pochissimo tempo perde tutto: amici, sponsor, fidanzata e gloria. Chiede perdono al mondo intero che nonostante tutto continua a marchiarlo come un dopato, lui accetta la squalifica e zitto zitto abbassa la testa e ricomincia ad allenarsi con il suo “Maestro Miyagi” che in ogni storia ci vuole. Il suo comportamento è impeccabile, sconta tutta la squalifica e torna alle competizioni. Successo dopo successo riesce anche nella conquista della seconda medaglia d’oro alle olimpiadi dimostrando che il migliore di tutti è ancora lui. Un lieto fine di una storia che vede l’affermazione, la caduta e la risalita dell’eroe. Una storia che ricorda anche gente come Andrè Agassi, tanto per dirne uno. Ne verrebbe fuori un gran bel film, non c’è che dire!

Ma non siamo ad Hollywood, non è la sceneggiatura di un film e infatti il finale è molto diverso e decisamente poco “happy”. Il protagonista si chiama Alex, il suo sport è la marcia e la sua storia fino alla squalifica per doping è simile a quella raccontata qualche riga più su con una differenza sostanziale: nella sua appassionata e struggente richiesta di perdono infrange una regola non scritta, una di quelle che costituiscono il fondamento di ogni onorata società: l’omertà. Sì, perché lui denuncia al mondo intero di non essere il solo a fare ricorso a pratiche illegali per vincere ma c’è un sistema forte e organizzato. Sa di avere ragione e infatti quando le relazioni politiche internazionali si irrigidiscono ecco che la Wada (associazione mondiale dell’antidoping) colpisce a gamba tesa gli atleti che gareggiano sotto la bandiera della Russia ma questa è un’altra storia, più o meno. Tuttavia Alex accetta la squalifica e si rimette al lavoro per poter essere pronto alla prima scadenza olimpica possibile e lo fa nel modo più pulito possibile: sceglie come trainer Sandro, uno che nella Wada c’è stato dentro, famoso per il suo rigore nella lotta al doping e non proprio elegantemente messo alla porta quando ha iniziato a dare fastidio a qualcuno di potente. Non solo, Alex sopporta anche l’incredibile calvario dei controlli antidoping perché un eventuale sgarro gli precluderà definitivamente il ritorno all’attività agonistica. I controlli (spesso a sorpresa) sono tantissimi, molti più di quelli che si usa fare in casi analoghi, e in nessuno di questi si riscontrano valori che suggeriscano l’utilizzo di sostanze proibite da parte del marciatore. Alex vince la marcia di Roma e strappa il pass per correre alle olimpiadi di Rio. Missione compiuta, il campione redento dimostra a tutti quanto vale e una medaglia nella sua disciplina gli basta per entrare nella leggenda. O forse no. Perché misteriosamente spunta un campione di sangue di un prelievo eseguito a sorpresa il primo gennaio 2016 che a seguito di un riesame presenta delle tracce di sostanze dopanti. Sei mesi dopo il prelievo. Alex e Sandro non ci stanno, protestano perché sanno che non è stato commesso alcun errore da parte dell’atleta. Al contrario denunciano irregolarità gravi nella pratica di quel prelievo e parlano di pressioni subite prima della marcia di Roma che è valsa la qualificazione di Alex alla rassegna olimpica. Il tribunale sportivo rimanda costantemente e senza motivo l’audizione della tesi difensiva del marciatore che alla fine si avrà il giorno prima della gara. Il responso è il peggiore possibile: squalifica per doping. Una squalifica che ha una vasta eco sui media mondiali ma che comunque non produce alcuna difesa da parte delle istituzioni sportive italiane e che scatena un acceso dibattito sui social tra chi difende Alex e chi invece lo attacca.

Gli spunti di riflessione che questa storia mi offre sono principalmente due, a prescindere dal lato “investigativo” che pure ne offre tanti altri.
Innanzitutto è curioso come molti dei detrattori dell’atleta non abbiano voluto sentire giustificazioni di sorta senza aver approfondito adeguatamente la questione. C’è anche chi si è spinto a definirlo una vergogna perché ha infangato l’immagine di una Nazione, quella italiana, che però proprio in ambito sportivo non sembra avere storicamente una posizione che la possa ergere a modello infallibile di legalità e lotta all’illegalità. A tanti non è bastata nemmeno una spiegazione molto sintetica su chi è l’allenatore di Alex perché tanto il virtuale “tribunale della rete” aveva già emesso il suo verdetto e poco importa che siano necessarie delle prove schiaccianti per poter emettere un verdetto di colpevolezza. Il tutto in un quadro che ha i contorni ancora molto sfocati per poter essere chiaro e univoco visto che i Carabinieri esaminando i valori ematici dei test volontari (circa una trentina!) hanno asserito con certezza che non c’è il minimo sospetto di utilizzo di sostanze dopanti.
Il punto che però più mi lascia perplesso riguarda uno dei princìpi fondanti della nostra cultura: l’illuminismo italiano ha prodotto 250 anni fa un saggio di Beccaria in cui si parla “Dei delitti e delle pene” e ci diceva già allora: “perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi”. È proprio qui che viene meno la giustizia nei suoi confronti visto il continuo rinvio di una sentenza che fino all’ultimo non si sapeva se sarebbe stata clemente oppure tremendamente penalizzante. Ciò che è successo non riguarda un semplice fatto di sport. Lo dimostrano le indagini dei Carabinieri che vanno avanti nonostante ad Alex, che il talento lo ha, sia stato impedito di poter competere per la medaglia d’oro. Si tratta di una anormale soppressione (specie per il mondo “occidentale”) del diritto sacrosanto di un uomo di poter dimostrare la propria innocenza di fronte ad un’accusa mossa contro di lui. Tralasciando il merito delle analisi del sangue, che pure hanno una rilevanza fondamentale in tutta questa storia, è incredibile il “trattamento giuridico” riservato all’imputato che di fronte all’evidenza di vizi procedurali nell’impianto accusatorio non ha potuto dire nulla o quasi.
E il tanto decantato spirito olimpico che, intanto, se ne va a farsi friggere…

P.s.: che i cognomi di Alex e Sandro sono rispettivamente Schwazer e Donati a fine racconto si può anche dire.

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