Vista la sconsiderata deriva centrista della sinistra europea ed extra europea, ritengo sia fondamentale tornare a parlare dell’importanza della definizione di destra e sinistra, segnalando le disgrazie e le conseguenze che possono derivare da un eccessivo centrismo e dall’abbandono della genetica di sinistra, senza citare chi sostiene il superamento della dicotomia destra-sinistra. A tal proposito ci aiuterà una dettagliata analisi della gramsciana Chantal Mouffe, politologa belga coautrice del libro “Egemonia e strategia socialista”.
La “terza via” non esiste
La prospettiva tipica liberale vede la democrazia come una lotta tra élites, che si svolge in un terreno neutro, rendendo così le forze avversarie invisibili e riducendo la politica ad uno scambio di argomenti e ad una negoziazione di compromessi. Il nuovo centrismo radicale ha dunque rinunciato ad un principio fondamentale della politica radicale: l’identificazione dell’avversario. Un avversario è un nemico con il quale abbiamo in comune un’adesione condivisa dei principi etico-politici della democrazia, mentre siamo in disaccordo circa la loro interpretazione e applicazione. Tuttavia questo disaccordo non è qualcosa che potrebbe essere risolto attraverso argomenti razionali perché si tratta di rapporti di potere. Dunque l’elemento antagonistico è il rapporto.
In una democrazia pluralista, il disaccordo tra consenso e dissenso dovrebbe essere considerato legittimo e dunque ben accolto: la democrazia si basa sull’alternanza. È proprio questo tipo di disaccordo che fornisce il materiale per una politica democratica ed è il fulcro della lotta tra destra e sinistra. Questo è il motivo per cui, invece di rinunciare a “sinistra” e “destra” come termini obsoleti, dobbiamo ridefinirli. Quando le frontiere politiche si confondono, le dinamiche della politica sono ostruite e la costituzione di identità politiche distintive ostacolate. La disaffezione verso i partiti politici si sviluppa e, a sua volta, scoraggia la partecipazione nel processo politico. È qui che iniziano dunque a svilupparsi altri tipi di lotte, come quella etnica o religiosa. L’antagonismo non potrà mai essere superato all’interno di una società, è per questo che ha bisogno di uno sbocco politico, altrimenti potrebbe portare alla degenerazione in altri scontri sociali.
Populismo di destra e lotta all’egemonia
Un’altra preoccupante conseguenza è l’ascesa di partiti di estrema destra, in quanto diventano gli unici partiti a sfidare il consenso dominante – o egemonia culturale -, apparendo così anti-establishment. La globalizzazione è la solita giustificazione fornita per il dogma “non c’è alternativa”. In effetti, l’argomento più volte testato contro la politica redistributiva socialdemocratica è che le strette restrizioni fiscali affrontate dal governo sono l’unica possibilità realistica in un mondo dove gli elettori rifiutano di pagare più tasse e dove i mercati globali non permetterebbero qualsiasi deviazione dall’ortodossia neoliberale. Questo tipo di argomento da’ per scontato il terreno ideologico che è stato stabilito a seguito di anni di egemonia neoliberale e trasforma ciò che in realtà è uno stato di affari congiunturali in una necessità storica. Qui, come in molti altri casi, il mantra della globalizzazione viene invocato per giustificare lo status quo e rafforzare il potere delle grandi imprese multinazionali. Il risultato è che oggi le multinazionali hanno acquisito una sorta di extraterritorialità. Sono riuscite ad emanciparsi dal potere politico e ad apparire come il vero centro della sovranità. Non sorprende come le risorse necessarie a finanziare lo Stato sociale siano in diminuzione da quando gli Stati non sono più in grado di tassare le multinazionali.
È solo opponendosi al potere del capitale transnazionale – un’altra globalizzazione, informata da un progetto politico diverso – che potremmo avere la possibilità di resistere al successo del neoliberismo e all’installazione di una nuova egemonia.
Un progetto radicale
Tutte le vittorie significative della sinistra sono state il risultato di un’alleanza di importanti settori delle classi medie e dei settori popolari, i cui interessi sono stati articolati. Oggi più che mai una tale alleanza è di vitale importanza per la formulazione di un progetto radicale.
Ci sono molte questioni riguardanti la fornitura di servizi pubblici decenti e la creazione di buone condizioni di vita su cui è stato possibile stabilire un’ampia alleanza. Tuttavia questo non può avvenire senza l’elaborazione del nuovo progetto egemonico che deve mettere all’ordine del giorno la lotta per l’uguaglianza, scartata dai sostenitori del neoliberismo.
Come Norberto Bobbio ci ricorda, è l’idea di uguaglianza che fornisce l’ossatura della visione di sinistra, mentre la destra ha sempre difeso forme diverse di disuguaglianza. Un progetto davvero radicale deve iniziare riconoscendo che, come conseguenza della rivoluzione dell’informazione, c’è una dissociazione crescente tra la produzione di ricchezza e la quantità di lavoro necessaria per produrla. Senza una ridistribuzione drastica della durata media effettiva di lavoro, la società sarà sempre più polarizzata tra coloro che lavorano in stabili e regolari posti di lavoro ed altri che sono disoccupati o hanno lavori part-time, precari e non protetti.
Congiuntamente con una tale ridistribuzione, l’economia plurale dovrebbe essere sviluppata in un settore associativo che svolge un ruolo importante a fianco al mercato ed il settore statale. Infatti, la condizione per il successo di tali iniziative è l’implementazione di una qualche forma di reddito di cittadinanza che garantisca un minimo decente per tutti. La riforma dello Stato sociale sarebbe più facilmente raggiungibile considerando le differenti modalità di tale reddito piuttosto che rimpiazzarlo solo con il workfare.
L’implementazione di tali misure potrebbe creare le basi per una risposta democratica post-sociale al neoliberalismo. Solo un’Europa integrata, in cui i diversi Stati uniscono le loro forze, potrebbe essere il contesto ideale per tentare di rendere il capitale finanziario più responsabile. Se gli Stati membri si accordassero su politiche comuni, un’altra globalizzazione potrebbe essere possibile.
di: Franco Astengo,
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