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La sinistra e l’etica della vita (e della morte)

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16 Giugno 2019

Categorie: Diritti, Salute, Società

La drammatica storia di Noa Pothoven, la 17enne olandese che ha deciso di mettere fine alla propria vita schiacciata dal pesante fardello di una forte depressione e di un disturbo post traumatico da stress dovuto a uno stupro avvenuto in tenera età che ha lasciato profonde ferite nell’anima, porta il dibattito sulle questioni del fine vita.
Tornano alla mente nomi che ci hanno commosso, in Italia e fuori: Eluana Englaro, Dj Gabo, Piergiorgio Welby, Terry Schiavo.
A me torna alla memoria anche un’altra dipartita, che mi commuove ancora oggi, quella di Lucio Magri che, pochi anni dopo la scomparsa di Mara Caltagirone, sua moglie e grande amore della sua vita (cose che non sempre coincidono) decise di andare a Bellinzona a finire volontariamente i propri giorni.

Vicende tristi, dolorose, malinconiche, che lasciano sempre un vuoto più grande di quello che ci si potesse immaginare.
Vicende, però, che seppur simili, non sono del tutto sovrapponibili, poiché laddove le tragiche vicende di Welby o Luca Coscioni sono relative ad una sorta di duello con la morte, la cui posta in palio è la propria dignità, e relativamente alle quali si può correttamente parlare di eutanasia, nel caso specifico di Lucio Magri e in quello di Noa Pothoven non siamo di fronte ad un compromesso con la propria morte, ma si è piuttosto di fronte ad un compromesso con la propria vita.

Non è mai semplice scrivere di certi temi, c’è sempre la sensazione di peccare di sensibilità; per quanto non richiesta, quindi, la mia specificazione è doverosa: io rispetto infinitamente le scelte di ognuno, il dolore delle famiglie, la sofferenza di chi si trova di fronte a queste scelte difficili, e provo solo un grande sentimento di amore ed empatia nei loro confronti, assolutamente scevro da ogni giudizio.
Ciò nonostante, credo che sia necessario guardare in faccia il dolore e che sia doveroso parlare di questi temi.  

C’è una differenza, si diceva, tra eutanasia e suicidio assistito, differenza che consiste (semplificando non poco) nella presenza o meno di una malattia terminale e/o di una sofferenza fisica invalidante e lesiva nei confronti della dignità personale, che è l’elemento che rende una vita degna di essere vissuta e degna di essere definita “umana”.
È necessario, quindi, sgombrare il campo da un imminente dibattito tra guelfi e ghibellini sull’eutanasia.
La vicenda di Noa non ha niente a che fare con l’eutanasia, che non è volontà di morire, ma è rifiuto di morire tra atroci e degradanti sofferenze. La vicenda di Noa ha a che fare con la ancor più nebulosa faccenda del suicidio assistito.

E qui, da donne e uomini di sinistra, ci troviamo tra lo Scilla di un libertarismo progressista che, guardando alla dignità dell’individuo, rivendica la libertà di poter disporre della propria vita in prima persona, e di conseguenza anche della propria morte, e il Cariddi olistico di un approccio collettivo alla questione, che considera la società come qualcosa di più che la semplice somma (di tatcheriana memoria) degli individui che la compongono, una società che sia il complessivo “agire di tutti e di ciascuno”.
Due posizioni che tra loro confliggono e sono inversamente proporzionali. Due posizioni che pongono alle sensibilità progressiste domande difficili.
È giusto garantire il diritto di suicidarsi o è compito dello Stato, dell’Istituzione, proteggere con divieti e leggi i propri cittadini da scelte come queste?
Chi ha diritto sulla fine della propria vita, l’individuo o lo Stato?

Personalmente, con tutte le cautele che il caso richiede, la mia opinione è che, sebbene io ritenga sacrosanto il diritto di ognuno di scegliere sulla propria vita e sulla propria morte, penso che il ruolo dello Stato, se non è quello di vietare, sia quello di disincentivare, di entrare culturalmente negli anfratti della società (approccio che a ben vedere non è altro che un insegnamento gramsciano) e di agire su tutte quelle contraddizioni che portano all’isolamento, alla solitudine, alle sofferenze profonde dell’anima, che in certi casi, purtroppo, si ammala e rischia di non guarire più.

Allora lo Stato, la società, tutti noi dovremmo chiederci non se Noa Pothoven avesse o meno il diritto di suicidarsi, non se questo diritto sia da riconoscere anche ai minori (anche perché sembra che la narrazione che si è diffusa sui media italiani riguardo ad un’Olanda permissiva fino al parossismo, fino all’autodistruzione dei suoi figli, non sia aderente alla realtà di quanto sia effettivamente avvenuto), ma piuttosto come possa succedere che in questa società a 17 anni si possa voler scegliere di morire.
Il fatto che l’Olanda abbia impedito a Noa Pothoven di accedere al suicidio assistito “solo” per la sua giovane età mantiene in piedi tutte quante le contraddizioni che sarebbero emerse qualora il permesso fosse stato accordato.
Può essere il suicidio (oltretutto legalizzato) la soluzione ai mali dell’anima?
Difficile rispondere, ma se la risposta fosse negativa, è giusto che lo Stato impedisca totalmente di disporre del proprio destino anche al più lucido individuo che ritenga terminato il senso profondo della propria vita?

Possibile che la società si sia talmente atomizzata, che i cittadini si siano così tanto trasformati in consumatori o utenti, e che ognuno di noi non sia più in grado di non pensarsi altro che come una monade isolata fino al punto di non avere più la forza e la capacità di salvare la vita ad un’adolescente?
Dove si colloca quel katà métron che possa permettere di salvare la capra del diritto individuale e il cavolo del principio fondativo dello Stato, che è quello di garantire la sicurezza ai propri membri?

Questa è una domanda ontologica, una contraddizione che la sinistra deve essere in grado di sciogliere per evitare di cadere nel laissez-faire liberal-culturale da un lato, o nel conservatorismo securitario dall’altro, e per evitare soprattutto il riproporsi di drammi come quello di una 17enne che veda nella morte l’unica via d’uscita dai suoi mali, davanti al quale almeno una cosa è certa: ne usciamo tutti sconfitti.

Simone Ceccarelli

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