1) Come nasce il libro? Ha inciso l’attualità del pensiero di Lucio Magri?
Il libro nasce da un debito di riconoscenza nei confronti di una figura politica e intellettuale, quella di Lucio Magri, che io penso sia tra le più complete, più interessanti e più affascinanti del Novecento italiano ed europeo.
Il debito di riconoscenza è pubblico, perché le sue idee sono feconde e indicano una traccia secondo me attualissima nell’analisi critica del capitalismo di oggi e nelle proposte riformatrici conseguenti. Ed è anche un debito di riconoscenza personale, perché l’incontro con lui (prima con i suoi saggi, i suoi articoli e poi con lui, direttamente) mi ha segnato.
2) Cosa pensi dell’introduzione che ti ha fatto Luciana Castellina?
È stata gentilissima. Le ho chiesto, prima di cominciare il libro, una sorta di autorizzazione politica e morale alla scrittura, perché è vero che siamo orfani di un grande partito ma non siamo orfani, per fortuna, di punti di
riferimento politici e intellettuali. Luciana è una di questi e la sua vicinanza, il suo sostegno e, mi pare di capire, la sua approvazione sono per me importantissimi. A lei devo molte correzioni, molti spunti, e anche la
copertina del libro, che è un suo dono. È la fotografia di una lettera – che Luciana ora custodisce a casa sua – che Jean Paul Sartre scrisse a Lucio Magri nel luglio del 1962 per informarlo che avrebbe pubblicato sulla sua
rivista un saggio sul neo-capitalismo e per congratularsi con lui. Un cimelio vero e proprio che, da solo, vale il mio ringraziamento a Luciana.
3) Lucio Magri ha parlato spesso del “Lungo 68 italiano”. Ad oggi come interpreti le sue opinioni in merito?
Magri è stato tra i primi a capire il senso profondo del Sessantotto, perché ha colto già nei primi anni Sessanta i caratteri di una trasformazione molecolare e incipiente del capitalismo che portava in sé i germi della
contestazione. Quando scoppia il Sessantotto in Francia Magri prende l’automobile con Filippo Maone e Rossana Rossanda e va a Parigi. Sulla base di quell’esperienza diretta, scrive qualcosa di più di un libro di cronaca: Considerazioni sui fatti di maggio. Appena tornato, chiede al Pci di svolgere quel ruolo di cerniera necessario tra il movimento operaio organizzato e le nuove culture della contestazione, un ruolo di ponte ideale tra la tradizione comunista e il nuovo che maturava nelle teorie dei movimenti di massa. Lo chiede al Pci e si attrezza a farlo in prima persona, ipotizzando e perseguendo un’alleanza tra soggetti, pratiche, idee capace di trasformare tanto la cultura politica della sinistra quanto, in prospettiva, la società italiana ed europea. Questa mi pare l’idea-forza straordinaria di quello che Magri interpreta come il lungo Sessantotto: la necessità di un’innovazione profonda nella cultura tradizionale comunista e la consapevolezza della maturità di contraddizioni clamorose del modello di sviluppo capitalistico che il ’68 esprime (e che nel ’68 esplodono).
4) Dopo le elezioni del ’79 Magri ha auspicato una convergenza tra Pdup e Pci. Erano così abissali le differenze o possiamo definirla una lite condominale ciò che era avvenuto prima?
No, nessuna lite condominiale. Magri, insieme a tutto il gruppo del manifesto, esce dal Pci nel 1969 per un dissenso radicale nei confronti di un Partito comunista che non raccoglie gli stimoli che Togliatti aveva
consegnato negli ultimi anni (il Memoriale di Yalta ma non solo) e che non capisce fino in fondo le novità che il Sessantotto indicava alla sinistra italiana ed europea. Viene radiato per questo e anche, non dimentichiamolo, per la questione cecoslovacca: l’invasione di Praga e il giudizio conseguente sull’esaurimento dei margini di riformabilità del sistema sovietico. Questioni non banali, quindi. La decisione di ritornare nel Pci, che maturerà nei primi anni Ottanta sulla base della svolta di Berlinguer (dal compromesso storico e dalla solidarietà nazionale alla linea dell’alternativa), poggia su di un giudizio concreto, appunto, che attiene alla nuova linea politica del Pci.
Ma bisogna anche notare che – eccezion fatta per i primissimi anni dopo la radiazione, nei quali Magri e il manifesto frequentano con risultati non eccezionali la galassia dei gruppi della nuova sinistra – vi è sempre in
lui un atteggiamento di grande apertura nei confronti del Pci. E la ricerca costante di un dialogo, di un rapporto. Anche in questo sta la straordinarietà di quell’approccio: fuori ma a ridosso, sempre riconoscendo e rispettando la dimensione di massa e il consenso popolare di cui godeva il Pci, sempre spinto dall’ambizione di rifondare su basi più avanzate l’area comunista italiana.
5) Hai scritto che Magri rivendica l’eredità gramsciana. In quali occasioni è più evidente?
Oltre che rivendicare direi che la rappresenta: in lui il genoma Gramsci (quello con cui nel Sarto di Ulm descrive la parabola storica del Pci) è evidentissimo. Evidentissimo, cioè esplicito, perché Magri chiama in soccorso l’eredità gramsciana in più tornanti. Lo fa persino quando nei primi anni Settanta il gruppo de il manifesto sembra dovere e volere prendere le distanze dai riferimenti culturali totemici del Pci. Non soltanto Magri rimane fedele all’idea gramsciana di un concetto di rivoluzione intesa come rivoluzione molecolare, come processo permanente e progressivo di sfida all’equilibrio dominante, di accumulazione di
forze, di massa critica, di idee, di consenso che fa nascere dentro il vecchio che muore il nuovo mondo.
Oltre a questo Magri recupera fino in fondo il Gramsci del Quaderno 22, quello dedicato all’americanismo e al fordismo e alla difesa, dentro la lettura della modernità e dello sviluppo produttivo, della dimensione dello
«umanesimo del lavoro». E per dire così, applica il Quaderno 22 al neo-capitalismo e al 1968. Non soltanto nella forma dell’analisi critica dello sviluppo ma anche nella forma della politica. Qui si colloca la riflessione sui
consigli, sul partito e sulla democrazia, che accompagnerà Magri fino agli ultimi anni, nei quali continuerà a invocare il ruolo di organismi permanenti di democrazia diretta, consigli che siano completamento degli istituti della democrazia rappresentativa e strumenti del processo storico necessario al superamento del capitalismo. Ho sempre sentito questa sensibilità consiliare molto viva e molto interessante.
6) Lucio Magri è una figura che non si può scindere da Il Manifesto. Quale era l’innovazione del giornale e quanto ha dato in quegli anni alla sinistra italiana?
Magri ha fondato e diretto il manifesto e a un certo punto, all’altezza del congresso del Pdup di Viareggio nel 1978, quando Rossana Rossanda e altri gli si contrappongono esplicitando un dissenso profondo rispetto alla
linea del partito, le strade si dividono. Anche in quel caso il tema della discussione non era esattamente una quisquilia: il giudizio sul Pci, la previsione dell’evoluzione della sua linea politica, il giudizio sul movimento del Settantasette e persino sulla lotta armata e il terrorismo. Poi mi piace ricordare che Magri tornerà a spendere energie intellettuali e politiche per l’esperienza della rivista del manifesto, fondata nel novembre ’99 con i compagni di sempre (Pintor, Parlato, Rossanda, Castellina ma anche Ingrao, Aldo Tortorella e Bertinotti). È un tentativo di fare politica ancora una volta
attraverso le armi dello studio, dell’inchiesta, dell’analisi del mondo. Dopo 56 numeri, nel dicembre 2004 deciderà però che proseguire non serve più. Non c’è un partito che la possa utilizzare, un soggetto politico che traduca in militanza, proposta, conflitto quel fiume di parole.
Detto questo, il giornale ha sempre dato tanto alla sinistra italiana, è sempre stato una voce critica e intelligente, aperta al mondo, alle sue contraddizioni.
7) Chiudiamo con una domanda più personale. Senti il peso e la responsabilità di questo lavoro?
Sento il peso e la responsabilità delle radici. C’è un antico proverbio cinese che dice che per quanto un albero possa diventare alto, le sue foglie, cadendo, non si allontanano troppo dalle sue radici. Sono le radici, del
resto, a spiegare il tronco, i rami, le foglie, a spiegare la loro evoluzione, la loro conformazione, la loro stessa natura.
Lucio Magri è una delle nostre radici più forti, una radice non recidibile, non sradicabile e per questo ho voluto dire: torniamo sui suoi passi, torniamo a leggere la storia e soprattutto il presente con quelle lenti.
Anche perché viviamo tempi in cui la politica, pure a sinistra, è spesso ridotta a tweet e a colpi di teatro o, meglio, di teatrino. Ecco, molto umilmente vorrei dire che in giro c’è di meglio, c’è di più. Possiamo fare di
meglio, rifondare e ricostruire una sinistra più degna. Io ci credo, lavoro per questo obiettivo.
di: Guido Rovi,
di: Franco Astengo,