La distanza tra la politica e il Paese reale è sempre più grande. Tra i partiti e il senso comune. Tra i quintali di chiacchiere che sprechiamo ogni giorno e i conti in tasca che alla fine del mese non tornano. Basta guardarsi intorno per capire che questo è un problema innanzitutto nostro, di quella che si chiama sinistra, dei nostri piccoli partiti e dei nostri sempre più autoreferenziali gruppi dirigenti.
Queste cinque ultime settimane di campagna elettorale dovrebbero essere per noi manna dal cielo, possibilità straordinaria per ridurre la distanza, dimostrare che esistiamo, che abbiamo idee, che abbiamo una posizione sul referendum e soluzioni per il futuro. Che diciamo No perché diciamo mille altri sì.
Perché siamo in campo, a disposizione di decine di milioni di cittadini per i quali la democrazia formale e un po’ più di democrazia sostanziale sarebbero oggi utili come l’ossigeno. Per spiegare (alla testa e al cuore, non alla pancia) perché ci piace la costituzione del 1948, perché diffidiamo degli endorsement di Marchionne, della Jp Morgan e del Fondo Monetario. Perché vediamo una connessione tra le modifiche alla seconda parte della costituzione e lo svuotamento della prima, dei suoi principi generali, delle garanzie universali che riguardano il diritto al lavoro, alla giusta retribuzione, al sistema previdenziale, alla salute, allo studio, alla casa, a una vita degna.
Ecco, questa campagna referendaria dovrebbe essere – per noi di Sinistra italiana – questa possibilità concretissima di riconnettere politica, sinistra e società. E quindi, di conseguenza, il tempo per una moratoria della polemica interna.
Penso molto concretamente al tempo che ciascuno di noi dedica alla politica nella propria vita, siano dieci minuti o ventiquattro ore al giorno. Considero un delitto non impegnare questo tempo integralmente per il successo del NO nel referendum del 4 dicembre. E il fatto che ciò non stia accadendo, e che anzi si intensifichino negli ultimi giorni articoli più o meno efficaci il cui significato è soltanto il posizionamento interno, la polemica, il dibattito per il dibattito, lo schieramento, penso sia un grave errore.
Se la platea dei fruitori di questo spettacolo non fosse così ristretta parlerei dell’ennesimo psicodramma della sinistra italiana.
Mi si obietterà: ma non possiamo fermare la macchina di Sinistra italiana, bisogna comunque andare avanti, fare il congresso. Certo, vero: inizierei con il metterla in strada precisamente per la campagna referendaria, cercando di capire – insieme – come migliorare la campagna comunicativa, come essere ancora più precisi, capillari, convincenti. Cioè come guadagnare voti per il No e, al contempo, come allargare il consenso e il perimetro di Sinistra italiana nella società, nel corpo vivo di un Paese che ha bisogno – contro il renzismo e oltre Renzi – di una sinistra non protestataria ma in grado di sostituire il quadro politico attuale, occupando il centro del quadro politico futuro.
Quello che mi sfugge è invece il senso delle prese di posizione di chi, mentre fa campagna referendaria, sente il bisogno di scrivere con l’esplicito intento di chiudere le porte, di perimetrare, di mettere paletti, di rivolgere la propria attenzione e le proprie energie a un’attività che assomiglia sempre più alla caccia alle streghe interna.
La si conduce, leggo, in nome della critica all’ambiguità. Ma quale ambiguità? Ma vi pare che nel Paese la critica che ci viene mossa sia l’ambiguità, la scarsa radicalità, persino la connivenza con il nemico? A me pare che chi ci guarda oggi ci contesti semmai l’irrilevanza, la scarsa efficacia, la marginalità rispetto alla politica.
Non soltanto mi sfugge il senso di questa operazione (che a dire il vero pare coordinata, non frutto del caso o dell’irruenza di qualche attivista o di qualche parlamentare) ma mi sfugge proprio il valore, l’utilità di tutto questo per la nostra comunità politica. A meno che il senso e il valore sia precisamente la ricerca della separazione, in nome della tesi della incompatibilità di fondo tra linee diverse. Se qualcuno lo pensasse sarebbe molto grave.
Io vedo un’unica strada, che non soltanto possiamo e dobbiamo percorrere tutti insieme. Ma che dal 5 dicembre dobbiamo sperare di potere percorrere insieme a tanti altri, certamente molti di più dei pochi eroi che sin qui – in oltre un anno e mezzo – siamo riusciti a convincere a tesserarsi a Sinistra italiana.
La strada è la costruzione, dopo il referendum, di una forza politica dell’alternativa capace di riaprire fino in fondo la partita, di essere parte fondamentale della ricostruzione di una proposta di governo. Capace di riconnettere – dentro il campo largo dei progressisti – le relazioni politiche e soprattutto sociali tra la nostra gente che il renzismo da un lato e il settarismo dall’altro hanno interrotto. Subalternità e governismo da un lato, minoritarismo e velleitarismo dall’altro. In mezzo e contro queste due derive dobbiamo collocarci noi.
Lì in mezzo c’è il baricentro di quello che intendiamo per campo largo dei progressisti e che suscita, da pulpiti che consiglierebbero maggiore cautela e minore sarcasmo, reazioni strafottenti. Sarebbe utile che sulla sua definizione convenissimo tutti, anche coloro che non la condividono come opzione politica. Il campo largo non è la somma tra Pd e Sel o un nome nuovo per una vecchia alleanza elettorale tra gruppi e gruppetti.
È invece, come già abbiamo avuto modo di scrivere, un dato di realtà che ha a che fare con la storia sociale, culturale e quindi politica dell’Italia repubblicana. È il reticolo di associazioni, comitati, collettivi, sindacati, corpi intermedi che da sempre animano il tessuto democratico del nostro Paese. È un popolo, un popolo vero: disorientato, diviso, frammentato dagli errori della sinistra politica di questi ultimi vent’anni. Che non vuole più essere costretto a votare Pd ma che neppure si sogna di votare l’ennesimo pasticcio elettorale della sinistra radicale.
Dare una forma politica, offrire un baricentro a questo spazio vuol dire semplicemente corrispondere alla storia della parte progressiva e democratica del nostro Paese. Sapere da dove si viene e avere in mente dove andare, come essere – ancora una volta seppure in forme nuove – forza popolare e trasformativa.
Questa è la nostra linea politica. Lo sarà anche a partire dal 5 dicembre. Se con qualcuno non saremo d’accordo ci si confronterà senza drammi nei luoghi che ci daremo, in maniera sincera, tenendo sempre in testa il vincolo con il Paese reale e non con gli equilibri interni e gli interessi di bottega. Ma fino a quella data, per piacere, pensiamo al referendum.
Sono nato nel 1984 a Treviglio, un centro operaio e contadino della bassa padana tra Bergamo e Milano. Ho imparato dalla mia famiglia il valore della giustizia e dell’eguaglianza, il senso del rispetto verso ciò che è di tutti. Ho respirato da qui quella tensione etica che mi ha costretto a fare politica. A scuola e all’Università ho imparato la grandezza della Storia e come essa si possa incarnare nella vita dei singoli, delle classi e dei movimenti di massa. A Genova nel luglio 2001 ho capito che la nostra generazione non poteva sottrarsi al compito di riscattare un futuro pignorato e messo in mora. Per questo, dopo aver ricoperto per anni l'incarico di portavoce nazionale dei Giovani Comunisti e avere fatto parte da indipendente della segreteria nazionale di Sel, ho accettato la sfida di Articolo 1 - Movimento democratico e progressista, per costruire un nuovo soggetto politico della Sinistra, convinto che l’organizzazione collettiva sia ancora lo strumento più adeguato per cambiare il mondo.
La Sinistra, Politica Interna,
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