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Ancora su neoliberismo e populismo

La via della Sinistra non sarà populista

di: Carlo Crosato,

19 Dicembre 2016

Categorie: Filosofia Politica, La Sinistra, Società

Mi sono imbattuto in un vivace scambio recentemente intercorso tra un neonato movimento, Senso Comune, e Simone Oggionni. In questo confronto cerco di inserirmi, più che criticando quanto finora si è scritto, immettendo – o provando ad immettere – nel dibattito alcuni elementi che rischiano altrimenti di essere trascurati.
Senso Comune, un aggregato nato nel novembre 2016 con l’intento di riportare in alto le ragioni del popolo, ha pubblicato il Manifesto per un populismo democratico, dove vengono immaginate alcune linee da percorrere per placare l’oppressione subita oggi dalla «gente comune». L’obiettivo, come si apprende già dal titolo, è quello di istituire una logica populista di stampo democratico; un populismo di sinistra, potremmo dire. Nonostante sia nato senza fiumi di consenso tali da far gridare al miracolo politico, questo evento impone al dibattito delle questioni che raramente si è disposti a considerare in modo maturo. Si tratta di questioni su cui già ci si è espressi, in Esse: in quell’occasione si affermava che di neoliberismo e populismo si deve parlare soprattutto per comprendere il loro comune effetto erosivo sulla democrazia, ma prima di tutto comprendendo la natura singola di ciascuno dei due fenomeni. Il rischio che altrimenti si correrebbe sarebbe quello di costruire riflessioni su fondamenta deboli; ed è lo stesso rischio che, mi pare, corre un’iniziativa politica che proponga il populismo come soluzione alla deriva oligarchica della società occidentale.

Si deve essere perciò netti, prima di tutto nell’accordarsi sul senso delle parole e sull’uso delle categorie. Quanto alla nozione di populismo, ci si può attestare con una certa sicurezza sulla definizione che Oggionni mi sembra mutuare da Marco Tarchi, secondo cui il populista guarda al popolo come una realtà organica, unitaria e dotata di una qualche indifferenziata rettitudine morale. E, se si vuole superare una visione morale, si può perfino accettare l’idea del popolo come una realtà oppressa in senso sociale e politico da un piano superiore, da una élite; quest’ultima è qualificata dal populista come moralmente ipocrita o politicamente truffaldina, a seconda della prospettiva che si intende adottare. Non approfondirei ulteriormente i problemi che già Oggionni solleva in merito a una visione così monolitica del popolo e nemmeno la criticità che sta al fondo del ruolo, imprescindibile per il populista, di un capo carismatico che detti il proprio verbo al popolo o che del popolo si faccia portavoce. Preferisco retrocede di un passo e soffermarmi sulla geometria binaria che questa prospettiva implica.
E desidero farlo coinvolgendo precisamente la categoria del neoliberismo; perché in questa geometria binaria, a occupare il polo opposto al popolo, e sovrastante quest’ultimo, è spesso collocato il polo del cosiddetto establishment, della élite, dell’oligarchia prodotta dalla politica neoliberista. Da qui l’idea di promuovere un progetto populista, che, localizzato un alto e un basso, si impegni nell’emancipazione del basso provando a ribaltare l’ordine dei fattori. Eppure, con una battuta, si potrebbe dire che invertendo l’ordine dei fattori, il risultato rischia di non cambiare affatto; il progetto populista, che intendesse rivolgersi contro l’attuale assetto neoliberista per dar voce agli oppressi, oggi si ritroverà impigliato nell’affermazione della stessa logica neoliberista che ha generato quell’oppressione. E questo è paventabile se si è in grado di caratterizzare in modo completo la nozione di neoliberismo.

Ci sono, dapprima, un paio di errori diagnostici da evitare. Il primo, che tuttavia pare ormai essere generalmente alle spalle di chi si occupa di questo tema, è l’idea che il neoliberismo sia una mera riattivazione in salsa finanziaria del liberismo del laissez-faire. Gli ultimi decenni hanno dimostrato una realtà differente, in cui le istituzioni, ben lungi dal ridurre la portata di politica e diritto, sono estremamente attive nella produzione di norme capaci di far penetrare le forme (e le conseguenze spesso nefaste) del mercato nella vita dei cittadini, e nello svuotamento delle pratiche democratiche.
Ma sarebbe fatale – ed è questo il secondo errore diagnostico – ridurre il fenomeno neoliberista a un disegno tracciato da un establishment monolitico quanto lo è il popolo su cui queste oscure trame insistono. In questo senso, ci si deve liberare da una certa semplificazione che confonde gli esiti di un processo storico con i fini originariamente prefissati in maniera cosciente e intenzionale. In altre parole, il neoliberismo non va osservato come un progetto studiato per innalzare una élite e gettare nella miseria una massa, e non è nemmeno un insieme di indicazioni dottrinarie imposte dal mercato e applicate, in malafede, dalla politica per soddisfare le attese di potenti affaristi. Insomma, il neoliberismo, pur declinando in uno scenario di arricchimento di pochi e di emarginazione dei molti, e pur coinvolgendo l’attivismo della politica, non può essere compreso e combattuto se ci si limita a una logica binaria di una élite in combutta contro il popolo.
Si trattasse davvero del semplice gioco di un “alto” contro un “basso”, di un “loro” contro un “noi”, il populismo avrebbe piena ragione d’essere, provocando la reazione della massa popolare contro la cricca affaristico-politica che causa la sua subordinazione: si tratterebbe di sostenere un non meglio qualificato popolo, magari non virtuoso come lo si vuol dipingere, ma almeno alla ricerca di libertà da un oppressore ben identificabile. Il populismo sembra invece perdere gran parte della propria efficacia critica se si comprende che il neoliberismo è una razionalità che penetra in modo orizzontale ogni aspetto della vita di ciascuno, perfino in senso antropologico, e che è promossa costantemente e in diversa misura da ogni individuo. La logica normativa di cui noi viviamo gli esiti è in realtà il prodotto di una lunga serie di battaglie e di politiche precarie, più simili a tentativi puntuali e di diverso colore, emerse nel perenne gioco conflittuale di potere e resistenze; la realtà sociale entro cui viviamo non è il risultato di un processo programmato, ma l’aggregazione di elementi formatisi gradualmente, magari interagendo e rafforzandosi vicendevolmente, e che hanno penetrato in maniera progressiva la vita degli individui e delle società con il loro inconsapevole beneplacito.
Parlare del neoliberismo come una razionalità – e non come una trama tessuta dall’establishment o come l’ipertrofia dell’ambito finanziario a danno di quello politico – significa descriverlo nei termini di un processo per cui le strutture e le relazioni tipiche del mercato si sono presentate come capaci di promuovere un progresso non solo nell’ambito materiale dell’economia, ma anche in ogni altra dimensione umana. Quell’insieme normativo appartenente al mercato è stato desunto dal suo campo di origine per essere applicato all’intera esistenza individuale o relazionale dell’uomo. L’imprenditorialità come ragione di crescita del singolo e la concorrenza come metodo relazionale votato al miglioramento delle condizioni presenti, il merito insito nel rischio senza tutele, il calcolo dei vantaggi e degli svantaggi in ogni scelta operata: si tratta di una razionalità che, bene o male e con diversi gradi di consapevolezza, tutti accettiamo, perché si è proposta come unico vero orizzonte di senso della nostra epoca nelle nostre società. Un orizzonte di senso che, gradualmente e non esclusivamente dall’alto, è penetrato nelle menti di ognuno di noi come fonte di verità per i nostri pensieri e le nostre azioni. Al punto che da lì sorgono i problemi dell’emarginazione dei molti e ancora lì vengono ottusamente e da tutti ricercati gli strumenti per costruirne le soluzioni, quasi che oltre a quell’insieme mitico non vi fosse alcuna alternativa.

È tuttavia innegabile, come già si è premesso, il ruolo massimamente rilevante delle istituzioni in questo processo; non tanto nella crescita – in senso estensivo e in senso intensivo – di questa razionalità neoliberista, quanto invece nella sua normalizzazione, nella sua realizzazione in termini giuridici. Ma sarebbe forviante rinvenire il fenomeno neoliberista nella sola attività degli Stati o delle élite che ne godono. Le classi dirigenti e così anche i popoli governati partecipano della stessa razionalità, sono mossi dallo stesso orizzonte di senso; essi lo promuovono nelle misure confacenti ai ruoli che ricoprono e, ovviamente, con differenti gradi di responsabilità.
Così, il cosiddetto establishment, sia esso di destra o di sinistra, non riuscendo a produrre politiche estranee a quella razionalità globale e onnicomprensiva, propone politiche che non fanno che limitare gli spazi partecipativi a favore di un’estensione del modello aziendale all’intera sfera dell’esistenza sociale. Ma, dall’altra parte, lo stesso orizzonte di senso coinvolge le popolazioni governate, le quali approvano o rigettano tali misure non tanto ponendosi all’esterno di questa razionalità, bensì valutando la conformità di tali politiche al grado di efficienza imposto dal neoliberismo, e così accettando e promuovendo spontaneamente quella razionalità che limita gli spazi partecipativi.
In modo inconsapevole, ma assolutamente orizzontale, il paradigma neoliberista è accolto come polo di verità, misura reale di ciò che è bene e di ciò che è male; ma, dall’altra parte, come fonte di quell’assottigliamento del benessere dei molti e di quell’emarginazione che il populismo vorrebbe lenire. Ma allora si comprende come il punto d’attacco per una critica profonda dello status quo non è tanto il ruolo attivo dell’establishment causa dell’oppressione dei molti, essendo l’uno e gli altri in qualche modo implicati nella promozione della causa della condizione in cui viviamo. Tale critica deve invece iniziare aggredendo quella razionalità neoliberista che ci accomuna tutti e che tutti, in modo più o meno consapevole, rilanciamo non riuscendo a concepire orizzonti di senso alternativi.

In modo ancor più sintetico: l’origine dell’emarginazione dei molti va rintracciata nel neoliberismo; e il neoliberismo va ritrovato in modo orizzontale nella forma stessa delle nostre società, essendo esso in grado di alimentarsi grazie alla prassi sia di chi gode dei suoi prodotti sia di chi ne soffre; se oggi c’è un sopra e un sotto, un alto e un basso, queste due parti (ammesso che esistano come tali) sono fortemente connotate dalla razionalità che le ha costituite. Ne deriva in modo piuttosto chiaro che il populismo manca proprio il bersaglio: cercando di ribaltare semplicemente l’ordine alto-basso, non percepisce la profonda vitalità di cui la razionalità neoliberista gode fra la cosiddetta «gente comune». Ciò che il progetto populista non sembra cogliere è che non si tratta prima di tutto di emancipare una massa emarginata da una classe opulenta e opprimente (questo sarà piuttosto l’effetto!), ma di tracciare le linee di una ben più profonda emancipazione da una maniera di pensare e di agire, da una razionalità che lega profondamente l’alto e il basso. Solo così si può pensare di ricreare, contro l’erosione neoliberista, un demos, un popolo costituito da persone davvero libere e capaci di pensiero autonomo e democraticamente sovrano, ma soprattutto una democrazia resa vivace dalla complessità irriducibile e conflittuale che la anima.

Infine, se il populismo vede nella figura del capo carismatico una funzione centrale, e se non si vuole che questo capo sia, in modo anacronistico, colui che detta il verbo a una massa insipiente pronta a moltiplicarlo, a costui si dovrà dare il ruolo di portavoce del popolo. Il populismo si mette dalla parte del popolo, ma il popolo è già di fatto – inconsapevolmente e da molto tempo – dalla parte di quel neoliberismo che genera le condizioni della sua emarginazione. Per questo il populismo non fa altro che rinfocolare il neoliberismo, solo soffiandoci sopra da un’altra direzione. Il fuoco però sarà lo stesso.
In questo senso, la pur nobile iniziativa di ravvivare un popolo sfiduciato e denigrato va ripensata in maniera radicale. Oltre al lavoro in favore di politiche redistributive, il primo passo è la promozione di una riflessione (che è anche pratica di resistenza) intorno a questa razionalità; una riflessione declinata secondo le varie sensibilità che abitano una democrazia, così da riuscire a mettere in campo prassi alternative e davvero emancipanti. Una riflessione, a ben vedere, che sfocia in una vita democratica davvero consapevole; ciò in cui il populismo pare non poter sperare.

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Carlo Crosato

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Dottorando di ricerca in Filosofia politica. Collaboratore di Micromega: Il Rasoio Di Occam. Autore di: L'uguale dignità degli uomini (2013); e allora? (2014); Dialogare con il Solipsista (2015); Dal laicismo alla laicità (2016); Il non detto (2017).

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