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Gerusalemme, la folle provocazione di Trump

mettere il sale su una ferita aperta dal 1947

di: Francesco D'Agresta,

7 Dicembre 2017

Categorie: Medio Oriente, Politica Estera

La mattina del 28 dicembre 2000 Ariel Sharon leader del Likud, protetto da un centinaio di poliziotti, intraprende una passeggiata offensiva sulla Spianata delle moschee nella città vecchia di Gerusalemme. Il gesto definito da Arafat «la madre di tutte le provocazioni» darà il via alla seconda intifada durata 5 anni e costata oltre mille morti per parte israeliana e oltre 5.000 per parte palastinese a cui bisogna aggiungere la distruzione generale che colpirà i territori palestinesi occupati. Quella camminata era un simbolo per rivendicare il possesso di tutta Gerusalemme.
 
Oggi un altro simbolo rischia di reinnescare la polveriera israelo-palestinese, il simbolo è l’ambasciata statunitense in Israele che Donald Trump ha deciso di spostare da Tel Aviv a Gerusalemme riconoscendo di fatto quest’ultima capitale dello stato israeliano. Mentre l’intera comunità internazionale si mobilita, abbastanza timidamente, contro questa scelta l’Autorità Palestinese ha indetto lo sciopero generale e Hamas ha invocato una nuova intifada.
Il tema dello status di Gerusalemme è stato una colonna del conflitto israelo-palestinese e lo scoglio principale su cui si sono arenati i tentativi di pace, lo sanno tutti e quella di Trump è una rischiosa provocazione che non smentisce la politica del presidente USA.
 
La città è sacra per le tre grandi religioni monoteiste:
per gli ebrei in quanto sede del Tempio e già capitale dei regni di Israele e di Giuda;
per i musulmani in quanto luogo di ascensione al cielo del profeta Maometto e sede della moschea al-Aqsa, terzo luogo sacro per l’Islam, dopo La Mecca e Medina;
per i cristiani in quanto luogo dove Gesù ha vissuto gli ultimi giorni di vita, crocefisso e risorto;
 
Dopo il mandato inglese che si concluse nel 1947 le Nazioni Unite affrontarono il problema dello status di Gerusalemme con la risoluzione 181 che prevedeva la ripartizione dei territori palestinesi tra due stati costituendi e la città posta sotto controllo internazionale. Ma tale status non si concretizzo mai, al termine del conflitto arabo-israeliano Gerusalemme si trovò tagliata in due seguendo la posizioni degli eserciti belligeranti al termine della guerra: Gerusalemme ovest, di più recente edificazione e a maggioranza ebraica, sotto il controllo israeliano; Gerusalemme est, la parte più antica e a maggioranza araba, sotto il controllo giordano.
Nel 1949 con la risoluzione 303 l’ONU ribadì la necessità di affidare la città al controllo internazionale, ma Israele non ottemperò mai a tale richiesta e vi trasferì gli uffici governativi. Tale spartizione rimase immutata fino al 1967 quando Israele nel complesso della guerra dei sei giorni occupò la città intera per poi proclamarla nel 1980 con una specifica legge approvata alla Knesset capitale “unita e indivisibile” dello stato di Israele, nonostante la risoluzione 242 dell’ONU che definisce Gerusalemme est “territorio occupato”.
I palestinesi hanno da sempre dichiarato Gerusalemme capitale del loro stato, come recita la Dichiarazione d’Indipendenza della Palestina del 1988 e con il processo di pace avviato da Arafat l’Autorità Palestinese ha chiesto la liberazione di Gerusalemme est e la definizione di una soluzione che lasciasse la città indivisa e accessibile.
 
È necessario respingere con ogni forza la provocazione statunitense, abbiamo tutti la responsabilità di contribuire a costruire la pace in quei territori feriti gravemente da novanta anni di guerra. Oggi il Governo Italiano, UE, Russia, Cina e ONU devono fermare la prevedibile escalation e tornare a lavorare con convinzione ad una soluzione definitiva che preveda due stati per due popoli mettendo al bando azioni dannose e pericolose come quelle intraprese da Trump.

Francesco D'Agresta

http://esseblog.it

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