Sul finire del secolo scorso, Samuel Huntington elaborò la sua teoria dello scontro delle civiltà individuando come luogo del conflitto internazionale non più le frontiere nazionali in generale, ma al massimo quelle degli Stati che insistono come linea di faglia tra due o più blocchi plurinazionali, geograficamente estesi e uniti tra loro da una affinità culturale.
Già Braudel ne parlava negli anni sessanta, ma il punto essenziale che individua Huntington è che i criteri che uniranno il mondo del futuro saranno di carattere culturale.
Egli, da destra, preconizzava un futuro scontro di civiltà, presupponendo a monte una antichissima convinzione della destra più muscolare, quella della sostanziale anarchia internazionale.
Guardando la questione da sinistra, cioè la parte politica che nasce per abolire lo stato di cose presente (o per lo mento per cercare di cambiarlo), l’accettazione fatalistica che si viva in un eterno scontro di civiltà, in un mondo organizzato in blocchi contrapposti l’un contro l’altro armati, non è accettabile, ma la concretezza della previsione di Huntington non può essere elusa.
Effettivamente, poco più di vent’anni dopo, nel mondo si delinea una sorta di calcificazione di blocchi geopolitici di carattere continentale, e si va delineando proprio sui confini delle civiltà, su ogni krajina culturale che separa un “mondo” da un altro.
Nel cuore d’Europa, però, emerge un sentimento controtendente e sempre più trasversale che, anziché veleggiare verso un’Europa in grado di giocare il proprio ruolo all’interno di questo nuovo scacchiere internazionale, rincorre la nostalgia dei nazionalismi che hanno ricoperto di sangue per secoli la terra tra il Mediterraneo e il Baltico, dagli Urali all’Atlantico.
Un sentire genericamente (ed erroneamente) definito “sovranista” alberga e si fa spazio anche a sinistra, identificando l’avversario nella moneta unica e nella forma che l’Unione Europea ha preso, talvolta sfociando addirittura nel vero e proprio antieuropeismo.
La domanda che elude ogni nazionalsovranista, però, è la seguente: che ruolo potranno giocare gli stati europei all’interno del nuovo ordine mondiale a blocchi contrapposti?
Se la previsione di Huntington si va realizzando, in che modo la sinistra nazionalsovranista europea pensa di influire nell’equilibrio mondiale quando a sud emergerà il blocco arabo che non ha del tutto digerito i residui del banchetto colonialista del XIX e XX secolo, ad est la Russia continuerà a premere per spostare la presenza della NATO lontano dai propri confini (e non è un caso se la tensione tra USA e Russia si consumi adesso in Ukraina, che è u-krajina, terra di confine) su quella distanza di sicurezza che ha garantito l’equilibrio pacifico europeo dal 1945, cioè mille km più ad ovest?
E quando gli USA continueranno a cercare di impedirlo con maggiore necessità, incalzati dal prepotente avanzare di Cina e India, dall’imprevedibile scenario che porrà il probabile futuro sviluppo del Sahel e dalla “buena onda” sudamericana che dal Brasile all’Ecuador, da Montevideo a Caracas fino alla finestra di piazza San Pietro si pone in alternativa alla politica americana?
L’impressione è che, scevro da velleità nazionalistiche che riguardano (o, per lo meno, dovrebbero riguardare) soltanto il nazionalsovranismo di destra, il nazionalsovranismo di sinistra sia una battaglia di retroguardia, un solipsistico esercizio intellettuale che, angosciato dal grido assordante del vuoto nichilistico in cui la società dei consumi ci ha portato, tiene conto della propria ansia occidentale ma non del contesto geopolitico in cui vive.
La questione che deve affrontare la sinistra, invece, è triplice.
Due questioni la riguardano internamente, e una esternamente. La prima questione è quella del rapporto tra tecnocrazia e partecipazione.
Da anni è ormai in atto uno svuotamento della partecipazione politica effettiva, ed è un effetto del neoliberismo in questa fase ultraconsumistica. Tutto diventa merce, tutto è comprabile, tutto ha un prezzo, quindi il senso dell’homo occidentalis non può che essere quello di consumatore. Consumatore di tutto. Dopo anni di costruzione di questo modo di pensare abbiamo imparato a porci anche davanti alle istituzioni come utenti e non più come cittadini.
Da qui l’uso spasmodico di referendum, di consultazioni on line, di primarie, di click, perdendo di vista l’elemento fondamentale, cioè che la forza sta in mano a chi pone le domande, non a chi pensa di rispondere plebiscitariamente con un sì o con un no.
È da questa sovrastruttura, nata dalla struttura neoliberista, che è germogliata la nuova struttura della tecnocrazia. Quindi la prima questione da affrontare è prima esistenziale che politica, ed è il rapporto tra l’uomo e la tecnica, intesa come modo di pensare, non semplicemente come tecnologia. Il vulnus tra demos e mercato risiede in questa dicotomia.
L’altra questione interna, sulla quale si innesta facilmente il fascino rossobruno del nazionalsovranismo, è la questione identitaria. La sinistra non può degradarsi nell’auspicio di un annacquato meltin’pot, di un meticciato di culture omologante in cui tutti sono uguali agli altri, perché questa è la dinamica che sta riuscendo al consumismo.
La crisi d’identità occidentale nasce anche dal fatto che tanto a Mosca quanto a Lisbona si mangino le stesse cose, ci si vesta allo stesso modo, si ascolti la stessa musica, si guardino gli stessi film, si vada in vacanza negli stessi posti e via dicendo.
Il consumismo occidentale non ha creato l’utopia del villaggio globale multiculturale in cui le differenze si esaltano come avviene, ad esempio, in qualche quartiere di semiperiferia delle grandi metropoli, non ricchissimo ma neanche troppo povero, che magari ha la fortuna di essere ben amministrato da anni, all’interno del quale si festeggia la fine del Ramadan e ci si scambia i doni a Natale. Il consumismo sta cancellando sia il Ramadan che il Natale e sta creando un mondo in cui sia il Ramadan che il Natale si festeggino allo stesso modo. Consumando.
In questo declino alberga l’anomia culturale della sinistra e l’anomia rabbiosa dei giovani figli di immigrati delle periferie. È in questo ambiente che si decide di radicalizzarsi e dare un senso alla propria rabbia e alla propria vita.
L’ultima questione, quella esterna, riguarda il senso dell’Europa nel mondo. Da un punto di vista geopolitico, per storia, per cultura, per posizione strategica e per rilevanza economica, l’Europa è il luogo principe per svolgere il ruolo di baluardo democratico nel mondo, e questo può farlo soltanto se al suo interno sarà presente una sinistra forte e influente.
Ma la sfida principale che l’Europa deve affrontare, risiede ad Idomeni, a Lampedusa, a Ceuta e Melilla e in ogni luogo di confine (ancora, la krajina) in cui il resto del mondo fa scoppiare la contraddizione per cui se l’80% delle risorse sono consumate dal 20% della popolazione, la restante parte della popolazione fa pressione su quel 20% per una più equa redistribuzione delle risorse.
Ecco, allora, la contraddizione principale della sinistra che i sovranisti non colgono. Finché si parla di sovranità all’interno del recinto europeo senza porsi il problema del modello di sviluppo, si presupporrà sempre l’ingiustizia redistributiva mondiale, causa principale delle tensioni che scoppiano ad Idomeni e nelle periferie di Parigi, del razzismo dilagante, della tensione sociale, del caporalato e della conseguente ingiustizia sociale interna, del vuoto legislativo all’interno del quale proliferano da un lato le mafie, dall’altro le multinazionali.
Non si può parlare né di pace né di aiutare chicchessia “a casa propria” se non si mette in discussione il modello di sviluppo occidentale e non si ha il coraggio di dire la cosa più impopolare, ma più vera che si dovrebbe dire: il problema è che l’Occidente consuma troppo e, per ridurre le tensioni internazionali, dovrebbe ridurre i consumi.
L’affermazione è sommamente impopolare, ma non può essere elusa senza lasciarla in mano alla destra.
L’unica strada percorribile per la sinistra è affrontare la questione da un punto di vista pre-politico, culturale, egemonico, per arrivare “al cuore e alla testa della gente”, abbandonando la retroguardia del sovranismo e guadagnandosi la prima linea della sinistra internazionalista: nessuno può dirsi libero se anche un solo uomo resterà in catene.
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di: Carlo Crosato,
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