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Ciclo neoliberale ed emersione dei populismi

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12 Dicembre 2016

Categorie: Gli Speciali

La vittoria di Donald Trump negli USA rappresenta l’ennesima puntata del processo di uscita a destra dalla crisi avviatasi nel 2008. Diventa sempre più chiaro che, in assenza di un accumulo di forze progressiste e di sinistra sufficientemente forte e consistente da permettere di invertire il senso di marcia e di agire sulla logica che presiede ai processi decisionali e ai meccanismi di distribuzione del reddito e della ricchezza prodotta, il malessere sociale sia inevitabilmente destinato ad incanalarsi a destra e nella direzione di risposte improntate ad un comunitarismo regressivo. I casi
di Siryza e di Podemos, per quanto importanti e in grado di suscitare speranze nella comunità militante della Sinistra, a causa o del loro isolamento internazionale, o dell’incapacità di sfondare realmente nella propria dimensione nazionale, si sono infatti dimostrati insufficienti ai fini del perseguimento di un simile obiettivo.

Non si tratta di un fenomeno inedito, o comunque non totalmente. Già gli anni Venti e Trenta avevano mostrato come le contraddizioni del liberalismo politico ed economico potessero agire e spingere l’orientamento di larghi strati della popolazione più nel senso di una regressione identitaria ed antidemocratica, che in quella di una risposta socialista e di democrazia sostanziale. Anche in quel caso, l’incapacità delle costruzioni statuali liberali nell’affrontare in maniera compiuta la sfida posta dall’ingresso delle masse nell’agone politico, il loro attestarsi su una logica profondamente elitaria e notabilare, aveva spalancato le porte ad un fenomeno, come quello fascista, che rispondeva all’astrattezza del formalismo liberale includendo – a modo suo – le masse nello Stato. È evidente che si trattasse di un’inclusione subalterna e passiva, di uno schema di nation building, di nazionalizzazione delle masse fondamentalmente autoritario e totalitario e tale da non riconosceread esse alcun ruolo autonomo in termini di funzioni e processi decisionali e deliberativi. Ma in ogni caso, ciò a cui ci si trovò di fronte fu una risposta in grado di fare i conti con le carenze di un modello, come quello liberale, ingessato dall’artificiosa separazione tra economia e politica e dall’impossibilità di concepire il proprio Soggetto sovrano e costitutivo in forme alternative a quelle
del cives optimo jure, del cittadino-proprietario. A ciò vanno aggiunte, sul piano economico, le conseguenze sociali della crisi del ‘29 e delle ricette messe in campo per contrastarla, fino ad una certa fase improntate ai dogmi della teoria economica neoclassica e, conseguentemente, fiduciose nelle capacità di autoregolazione del mercato. Come descritto efficacemente da Polanyi, la società è portata a sviluppare in ogni caso, a fronte di una piena e completa esposizione alle logiche del mercato, meccanismi di autoprotezione, la cui natura però, aggiungiamo noi, non è scontata né tanto meno univoca, potendo al contrario assumere forme e logiche profondamente contrastanti e antitetiche. È chiaro come in assenza di un’organica azione dello Stato e dei poteri pubblici diretta a ricostruire il legame sociale attraverso meccanismi di protezione sociale ispirati a visioni solidaristiche e universalistiche, la naturale fragilità degli esseri umani di fronte alle incertezze
causate dal pieno dispiegarsi della logica di mercato possa trovare cura e riparo in altre – e più regressive – forme di legame sociale. Da qui il razzismo, la xenofobia, i miti della Razza e della Nazione: la mancanza di adeguate risposte in termini di protezione sociale e di Welfare finisce per assegnare centralità alla dimensione etnico-identitaria, ritenuta come la più efficace per proteggere l’individuo e la sua innata fragilità.
Un fenomeno che, seppur sotto forme e in contesti diversissimi, pare replicarsi oggi secondo gli stessi principi di base. Il ciclo neoliberale ha infatti prodotto un’involuzione oligarchica ed elitaria dei nostri sistemi democratici (la post-democrazia di cui parla Crouch), dislocando e trasferendo la sovranità da quei soggetti passibili di legittimazione democratica e permeabili all’azione organizzata dei cittadini, a soggetti invece (sia di natura pubblica che privata) totalmente estranei a questo tipo di legittimazione. L’enorme peso assunto dagli organismi tecnici e dagli attori economici privati (poco importa se di natura finanziaria o industriale) nelle dinamiche e nei processi decisionali, espropriando (o comunque indebolendo potentemente) i popoli sovrani della capacità e del potere di autodeterminarsi e di auto-normarsi, ha quindi condotto ad un’inedita forma di oligarchia, creando nei corpi elettorali e nelle comunità politiche nazionali un senso di impotenza e di estraneità alle forme di esercizio del potere e rafforzando oltremodo la sfiducia nei confronti dei rituali democratici (elezioni, referendum, ecc). La separazione tra politica ed economia, costitutiva del liberalismo, è insomma riprodotta sotto nuove forme, depoliticizzando gli Stati e gli organi di governo democratico e riconducendo questi ultimi ad una dimensione meramente amministrativa (che, risaputamente, si limita ad applicare e attuare decisioni assunte altrove).
Accanto a ciò vanno ricordate non solo le ovvie conseguenze sul piano sociale e finanche psicologico di una crisi come quella esplosa attraverso i mutui subprime, ma anche gli effetti che a livello di senso comune ha prodotto l’ormai quasi quarantennale ciclo neoliberale. L’aver individuato – in seguito alla crisi di razionalità e di legittimazione dei sistemi di Welfare State – nella riattivazione dei meccanismi spontanei di mercato la principale forma di risposta e di soddisfazione dei bisogni materiali, ha nei fatti ingenerato un profondo processo di disintermediazione, di rottura e di superamento di quella funzione di mediazione e di composizione
cosciente degli interessi che è al contrario propria della politica e della sua dimensione, messe di lato e relegate ad un ruolo ancillare. È in virtù di ciò che il (neo)liberalismo – come già riconosciuto da Schmitt – si caratterizza come potente vettore di spoliticizzazione. Per il fatto, cioè, di assumere quella dell’homo oeconomicus come visione antropologica totalizzante e di elevare conseguentemente la forma di legame sociale – diretta e immediata – che origina dal mercato e dalla pratica di scambio e compravendita a meccanismo principale della riproduzione sociale. Ma a furia di favorire risposte sempre meno politiche, sempre meno globali, sempre meno “mediate” (perché, come si è affermato, la politica è essenzialmente mediazione, ossia porre una distanza tra gli istinti e gli interessi più basilari e la soluzione attraverso cui fornire a questi una risposta), esaltando al contrario il mercato in virtù della sua immediatezza, si è finiti per alimentare un senso comune sempre più naturalmente portato ad interfacciarsi “di pancia”, in maniera “violenta” ed, appunto, immediata, con le mille questioni e problematiche che il mondo odierno ci pone davanti. E da qui, a cascata, l’idea che si risponda ai danni più o meno diretti della globalizzazione neoliberista (la concorrenza al ribasso tra i lavoratori di diversi etnie e nazionalità e i fenomeni migratori innescati da quella guerra e da quella pratica neoimperialista che al liberalismo odierno risulta indissolubilmente connessa) individuando nel “siriano”, nel “libico” o nel “messicano”, a seconda
dei contesti, il principale nemico di una comunità altrimenti sana e ricca.
Esattamente come il comunista Togliatti, di fronte all’affermazione del liberale Croce secondo la quale il fascismo era da considerarsi come una semplice “parentesi” della vita nazionale, rispondeva sottolineando le radici che al contrario questo fenomeno affondava tanto nella storia nazionale quanto nelle contraddizioni dello Stato monarchico e liberale, anche oggi il fenomeno del populismo e dei rinascenti fascismi vanno indagati e osservati considerandoli non come “eccezioni” o come semplici deviazioni irrazionalistiche favorite da un “popolo fanciullo” e incapace di
governarsi e di decidere sul proprio destino, ma come il principale portato dei processi covati da dei sistemi politico-sociali oligarchici e mercatisti. Non serve a nulla quindi stigmatizzare e ironizzare sulla capacità di scelta razionale dei più, arrivando addirittura (sulla base di una presunta irrecuperabilità del concetto di democrazia e dello strumento del suffragio universale) a proporre di legare il diritto di voto a presunti “test di cittadinanza” o di educazione civica. È chiaro infatti come
fuori da una dimensione sociale e (tendenzialmente) sostanziale della democrazia – come quella invalsa nel Trentennio glorioso –, e in assenza di quell’insieme di condizioni (economiche, materiali e politico-giuridiche) tali da assicurare un discreto livello di autonomia alle classi popolari e ai soggetti del lavoro, un suffragio universale ridotto a semplice rito e a pura forma non possa che assumere una valenza regressiva. Un corpo elettorale sempre più disabituato ad esercitare la libertà
pubblica e le diverse forme dell’autogoverno è inevitabilmente destinato alla subalternità politica, oscillando tra la passività propria di una massa di manovra nelle mani di soggetti ed interessi altri e estremamente ristretti, e la trasposizione nel momento elettorale della logica ribellistica e rabbiosa tipica dei riot e delle jacqueries. La scissione ed il divorzio tra il suffragio universale ed il costituzionalismo democratico-sociale, tra pratica elettorale e sovranità popolare, non può quindi che neutralizzare la carica progressiva ed egualitaria del primo elemento.
La via d’uscita può essere individuata solo in un’azione di profonda ripoliticizzazione del campo istituzionale e della società, segnati, il primo, da una sempre maggiore impermeabilità al conflitto sociale in nome di una presunta tecnicità delle decisioni, e la seconda attraversata sì da una pluralità di conflitti, ma di natura settoriale ed impolitica. Il solco dentro cui muoversi e la direzione verso cui orientare la propria azione politica è quindi quella di una democrazia articolata e di massa, capace di innervare del conflitto sociale l’insieme delle istituzioni ma al tempo stesso di produrre grandi sintesi e visioni globali. Riscoprendo, in poche parole, l’efficacia politica e progettuale del concetto di Socialismo.

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