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Dopo il lavoro, la Sanità!

la buona medicina, per sua stessa natura, respinge qualsiasi approccio che non sia totalmente disinteressato

di: Roberto Gramiccia,

12 Aprile 2017

Categorie: Italia, Politica Interna, Salute, Società

Qualche giorno fa ho avuto modo di ascoltare a Cesena, in un’assemblea pubblica molto partecipata, l’intervento del Prof. Riccardo Caporali, che mi ha colpito per lucidità e pragmatismo. Una sua riflessione in particolare voglio far mia e contribuire a diffondere. Si tratta della sottolineatura di una necessità assoluta: quella di far sì che nel programma politico di ArticoloUno-Mdp vi siano tre o quattro proposte fondamentali per così dire connotanti (traccianti), citando le quali non sia possibile non richiamarsi a chi le ha avanzate. Mi pare un’idea che, come tutte le ottime idee, è semplice ma difficile da realizzare. Un po’ come il comunismo per Bertolt Brecht. Ebbene, a proposito di sanità si deve capire che, se è fondamentale ribadire principi irrinunciabili che derivano dalla nostra Costituzione (ma anche dalla splendida riforma del 1978), pur tuttavia questo non è sufficiente, se vogliamo aggredire le cause di fondo che stanno distruggendo la nostra sanità pubblica e porci come un interlocutore attrattivo e credibile su questa tematica fondamentale, alla quale tutti sono sensibili.
 
In queste brevi note mi sforzerò, quindi, di dire ciò che comunemente non viene detto, specie a sinistra, quando si parla di questo argomento cruciale. Darò per scontata la necessità di richiamare l’attenzione sull’esigenza di inverare l’articolo 32 della nostra Costituzione, ponendo fine alla sequela interminabile di tagli lineari e alla riduzione dei posti letto che hanno intasato i nostri Pronto soccorso; alla mercificazione della salute che ha coinciso con l’aziendalizzazione della sanità; all’inefficienza; all’arbitrio della politica e allo scandalo indicibile della corruzione; al sacrificio della prevenzione e della sanità territoriale; alla piaga delle esternalizzazioni; alla totale assurdità dell’approccio alla cronicità con la “morte in culla” delle cure a domicilio; all’implementazione della sanità così detta integrativa che rischia di ricondurci all’arcaico sistema delle “mutue”, mettendo lo stato in concorrenza con sè stesso, laddove suggerisce e applica ricette private per la soluzione di problemi pubblici (su questo ultimo aspetto rinviamo alle ottime analisi di Ivan Cavicchi su Il Manifesto)
 
Più in generale, mentre si ritiene indispensabile chiamare a una vigilanza e a una lotta dura per salvare e se possibile rigenerare ed estendere quello che ancora resta di una sanità pubblica e universalistica basata su una fiscalità generale progressiva, quelli che mi pare di dover affrontare con forza sono due argomenti, regolarmente ignorati, più che di carattere organizzativo, di natura culturale, e addirittura filosofica. Non si può trascurare, infatti, la necessità di affrontare una dura battaglia di sistematica falsificazione nei confronti di una cultura scientistica, tecnocratica, mercatistica, riduzionistica che ha finito per imporre pratiche di parcellizzazione esasperata del sapere e del fare in medicina, capaci di produrre una clamorosa lievitazione dei costi sanitari e una drammatica precipitazione della qualità media del “fare medicina”.
Prima ancora di affrontare brevemente quella che oggi si configura come una sacrosanta battaglia contro un dispotismo ipercartesiano che vede nell’iperspecialismo e nella disumanizzante trasformazione dell’uomo malato in un insieme di organi e funzioni, vorremmo intrattenerci su un argomento che potrebbe assestare un colpo formidabile a qualsiasi cultura della privatizzazione esasperata, guadagnandoci consensi e attenzione da parte di un pubblico che non solo fa parte di quei oltre 10 milioni di cittadini che non possono più curarsi per mancanza di mezzi, ma anche di fasce cospicue di ceto medio riflessivo in grado di capire il senso di un ragionamento elementare. Elementare ma che nessuno mai fa, men che meno a sinistra.
 
La cosa è semplice nella sua sostanza: la buona medicina, per sua stessa natura, respinge qualsiasi approccio che non sia totalmente disinteressato. Conoscendo la natura dell’uomo, non può infatti non essere evidente che la scelta dei percorsi diagnostici e terapeutici deve essere completamente liberata da valutazioni che non abbiano esclusivamente a che vedere con la salute individuale e con quella collettiva. L’esperienza di chi, come il sottoscritto, ha lavorato in Sanità pubblica per oltre 30 anni proprio questo dimostra, che ogni qual volta la scelta dell’approccio terapeutico è condizionata da fattori economici, quella scelta sarà piegata sul profilo degli interessi che la condizionano. E questo è grave perché quello prescritto, in linea tendenziale e persino inconsapevole, non sarà il percorso diagnostico e di cura più appropriato ma quello che, nel migliore dei casi, concilierà la ricerca del profitto con quella della salute. In parole più brevi e più semplici: la buona medicina non può che essere pubblica, e non per motivi astrattamente ideologici ma per ragioni intrinseche alla sua stessa natura!
 
Se questo è un argomento connotante del tipo di quelli richiamati dal Prof. Caporali, ve n’è un altro ancora più significativo. Si tratta, sviluppando minimamente le premesse da cui sono partito, di constatare come nell’attuale sistema sanitario siano quasi pressoché scomparse tutte quelle figure che storicamente interpretavano il punto di vista di una medicina ampia, generalistica, olistica, unitaria. Mi riferisco alla burocratizzazione dei medici di medicina di base, alla totale marginalizzazione della figura dell’internista, e alla assoluta inadeguatezza del numero e del rilievo fornito agli internisti dell’età senile, cioè ai geriatri. La scomparsa di queste figure è stata sostituita da: burocrazia, iperspecialismo, ipertecnicismo e medicina difensiva.
 
“Il vero è l’intero” diceva Hegel. Se si è d’accordo su questo, dal momento che la medicina di oggi ignora del tutto l’intero e si occupa solo della parte (l’organo), quando non addirittura della singola funzione, ben si comprende la deriva di senso che ha condotto la clinica a disinteressarsi della verità per porre in essere pratiche e linee guida inautentiche, fondate sulle esaltazione acritica di un approccio scientistico e ipertecnologico. “Non esistono malattie esistono malati” recita un vecchio e saggio aforisma. Ebbene oggi questa verità è rovesciata: esistono solo malattie di “uomini senza volto” che offrono la possibilità di fare ottimi affari, moltiplicando all’infinito i percorsi diagnostici e terapeutici e la medicalizzazione esasperata.
 
A questo conduce, infatti, l’uscita di scena di quelle figure che si riconducevano al magistero di grandi medici come Augusto Murri, Cesare Frugoni, Giuseppe Moscati tanto per intendersi, e alla sterilizzazione intellettuale e professionale di una categoria fondamentale come quella dei medici di famiglia. È del tutto evidente che per uscire da questo tunnel non basta combattere la pur pericolosissima sanità integrativa ma occorre porre in essere una vera e propria rivoluzione copernicana. Una trasformazione, cioè, capace di mettere al centro il malato con la sua complessità clinica e antropologica e il medico capace di valutare l’indivisibilità di questo unicum. Che si tratti di una battaglia che debba aggredire assetti egemonici consolidati e coinvolgere l’università, la formazione e il senso comune è cosa di assoluta evidenza. È questo che dovremo fare per farci finalmente ri-conoscere, salvare un patrimonio di conoscenze di inestimabile valore e mettere al riparo la salute pubblica dalle aggressioni virulente degli speculatori e dei loro fiancheggiatori politici.

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