La cronaca politica delle ultime settimane, salvo la dichiarazione di voto di Roberto Benigni, è dominata dall’approccio alla macchina amministrativa romana di Virginia Raggi, la neoeletta sindaca grillina della Capitale. Spostiamo il naso un po’ più in alto, su due importanti città dell’Italia settentrionale. I sindaci di Milano e Torino sono stati scelti dai cittadini premiando il profilo più estemporaneo fra i nomi più organici ai partiti, quantomeno per l’approccio alla politica, consegnandoci un Giuseppe Sala che ben poco ha in comune con la storia del Partito Democratico (ma è riuscito a compattare il centrosinistra dietro al suo nome) e Chiara Appendino, apprezzata dalla “Torino-bene” e che facciamo fatica ad immaginarla urlante ai “Vaffa-Day” di Beppe Grillo.
Ora spostiamo lo sguardo nel nostro contesto, quello della “sinistra-sinistra”. Ancora una volta ci troviamo a discutere, sperticarci, sproloquiare rispetto a posizioni (rispettabili e talvolta condivisibili) di sindaci poco accettati nella nuova Sinistra Italiana, probabilmente rendendoci conto di quanto le loro parole siano mediaticamente rilevanti (e proprio per questo dovremmo sforzarci di aprire loro le porte).
Aldilà della curiosità che possono suscitare i volti emergenti per gli onori della stampa (e gli amministratori alla prima esperienza fanno sempre un certo effetto), la figura del sindaco appare realmente sempre più influente nella scena politica italiana. Lo stesso Matteo Renzi nasce con l’etichetta di “Sindaco d’Italia”, saltando entro la cassa di risonanza dei media nazionali come il Primo Cittadino di Firenze, poco organico, meno allineato e ribelle, il “rottamatore”.
Altra testimonianza può essere data dalla riforma costituzionale, sulla quale ci esprimeremo il 4 dicembre di quest’anno: l’art. 55 prevederebbe che il Senato rappresenti le istituzioni territoriali ed eserciti funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica; la composizione sarebbe poi definita nell’art. 57, parlando anche di un ruolo riservato ai sindaci: Il Senato della Repubblica è composto da novantacinque senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali e da cinque senatori che possono essere nominati dal Presidente della Repubblica. I Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori.
Il legislatore italiano, almeno dai primi anni ’90, è progressivamente andato ad attribuire ruoli ed importanza alla figura del sindaco, il suo rapporto con l’elettorato . Con la l. 81 del 25 marzo 1993 viene istituita l’elezione diretta del sindaco e del presidente della provincia (poi rimaneggiata con il TUEL del 2000).
Quel delicato passaggio storico ha visto affermarsi questa nuova modalità di elezione per gli enti locali, anche grazie all’incoraggiamento delle neonate liste moderate d’ispirazione riformista (le scorie di DC, PLI, PRI e PSI) ed una spinta popolare, la cui volontà pareva essere chiaramente espressa nei risultati referendari di quella stagione (legge elettorale, finanziamento pubblico ai partiti). Si voleva cioè rimuovere l’entità “partito” conosciuta fino a quel momento, la bestia grigia che sarebbe stata la deficienza di sistema scoperchiata da “Mani Pulite”. Ecco quindi emergere “un panorama politico e istituzionale senza territorio. Senza partiti. Ma con molti piccoli capi, i sindaci” come ci dice Ilvo Diamanti in un articolo su La Repubblica (15 febbraio 2016). Addirittura di tanto in tanto emerge ancora la rivendicazione di un partito dei sindaci . Abbiamo poi la legge elettorale per i grandi comuni (sopra ai 15.000 abitanti), presa come modello per “l’Italicum”, forse per riuscire ad affermare anche a Palazzo Chigi una figura che, oltre ad essere garantita “la sera delle elezioni”, riesca a recuperare un legame emotivo con il suo elettorato.
Eppure, nonostante venga premiato il “modello”più simpatico ai cittadini, si concorre per dividerli creando un debole mercato di opinione, per avere tanti leader e meno forma politica, per premiare una maggioranza che non abbia l’impiccio di dover mediare, portando il consenso a catalizzarsi, e il ballottaggio può essere un ottimo esempio di come questo gioco concorra a determinare instabilità politica.
Eppure i sindaci, oltre agli onori, sono depositari anche di un numero crescente di oneri, sia per il ruolo formale da loro assunto che il carico simbolico che comporta questa carica per i cittadini sottoposti alla giurisdizione di un comune.
I tanto vituperati partiti sono infatti venuti a mancare come “cinghia di trasmissione” fra le sensibilità sociali e la azione amministrativa, scaricando quindi il loro ruolo sui rappresentanti eletti o direttamente sul sindaco (nei comuni piccoli o piccolissimi), che si è tramutato nel “paziente confessore” di qualsiasi disperato, anche se spesso non può provvedere a trovare soluzioni al problema individuale.
La rappresentanza dei sindaci in senato sarà megafono per questi “combattenti da prima linea” o sarà trombone per i sindaci-leader?
Altre questioni possono venire in mente pensando alla progressiva erosione e (probabilmente) alla definitiva scomparsa, delle province. Già ora questi enti sono gestiti tramite assemblee di sindaci e rappresentanti eletti in secondo livello entro i comuni italiani. Quando non esisteranno più si sceglierà di attribuire maggiori funzioni (e risorse) ai comuni, si proverà a sostituirle tramite enti sovra-comunali (unioni di comuni, nemmeno previste in Costituzione; città metropolitane) o le regioni prenderanno in carico maggiori oneri?
Nel primo caso, gli 8.000 comuni italiani si rivelerebbero anacronistici per assorbire funzioni di queste dimensioni, cosi come (probabilmente) lo sarebbero le regioni non a statuto speciale. Per l’altra ipotesi presa in considerazione, occorrerebbe un maggiore sforzo da parte del legislatore nazionale, ben maggiore di quello dimostrato con la pasticciata “legge Delrio”, per dare maggiore dignità ed uniformità a questi enti sparsi su tutta la penisola e nati in forme differenti (sostituti di comunità montane, propedeutici a fusioni, semplici convenzioni di servizi).
I quesiti sono molti e forse proprio per questo i leaderini sono insufficienti: dobbiamo essere in grado di ripensare la forma degli enti locali nel suo complesso, renderli conformi con la situazione attuale e realmente al servizio del cittadino. Per farlo, serve un partito.
A sua volta però, il soggetto che noi ci immaginiamo non potrà permettersi di schiacciare qualsiasi estemporaneità proveniente da qualche sindaco (specie se questo ha governato città come Milano o Cagliari). Gli amministratori sono gli unici ad avere un reale polso dei territori, perché interpreti (nel bene e nel male) di quelle interlocuzioni che un tempo erano filtrate dai partiti di massa. Oggi i loro eredi interpretano con palese difficoltà questa missione, la stessa che durante il secolo scorso ha portato ad una rigida selezione di ottimi amministratori, non “capi da ballottaggio”.
Studente, capogruppo di maggioranza per il Comune di Piteglio (PT) dal 2014 al 2017. Membro del consiglio comunale di San Marcello Piteglio (PT).
di:
di:
di: