Ci sono momenti della Storia in cui un ragazzino si arrampica su un muro e si accorge che il giardino è più grande di quanto da giù immagina. Ne conosceva soltanto una parte. Ora vede anche la parte oltre il muro. Lo vede tutto.
A impedire la percezione del tutto, l’idea del tutto, e a imporre quella del frammento separato, è il muro. Sono i muri.
Sono i muri geografici e politici, come quello che ha diviso per ventotto anni Berlino e l’Europa, e l’Europa occidentale dal continente eurasiatico. O come quello che separa dal 1994 Israele dalla Striscia di Gaza. O come il muro americano in costruzione tra Stati uniti e Messico, dove si esaurisce la migliore identità culturale statunitense, quella che ha visto l’alba con la rivolta pacifista e spirituale della Beat generation e il tramonto con la fine del sogno di Barack Obama. Da “On the road” a “In the house”, asserragliati dietro le porte blindate delle proprie piccole patrie, nei limiti angusti della paura e della diffidenza, dell’identità che non accoglie ma si chiude in sé fino a soffocare.
Sono i muri di pensiero, che hanno separato per decenni i valori di “giustizia sociale” dei paesi socialisti dai principi di “diritto individuale” dei paesi occidentali. Quelli che hanno contrapposto per secoli l’utopia storica della sinistra, il sogno laico di liberazione, dalla sensibilità cristiana, la buona novella evangelica che rovescia l’immaginario del potere configurando una dimensione altra di esistenza terrena.
Oggi è il momento in cui a carponi sopra i muri ideologici del Novecento ci accorgiamo del paradosso per cui i sistemi che hanno scelto di soffocare la libertà in nome dell’uguaglianza hanno prodotto, a lungo termine, solo l’esplosione di un senso irriducibile di ingiustizia, mentre quelli che viceversa hanno sacrificato la giustizia in nome dell’intangibilità del principio individuale hanno determinato, di fatto, l’abolizione delle più elementari libertà umane.
Dall’alto di questi muri continuiamo a coltivare dubbi, non facilmente risolvibili per chi ha l’intenzione di abitare lo spazio della politica senza rinunciare alla conoscenza diretta della vita. Ma abbiamo, da qui, maturato persino due ipotesi di certezza che proviamo a offrire sul tavolo di un dialogo per noi ineludibile tra socialismo e cristianità, che provi a porre argine alla rovina tecnocratica e all’imminenza di una terza guerra mondiale.
La prima è che non può esistere una giustizia che non contempli in sé il principio della libertà, così come, viceversa, la libertà senza giustizia è solo una parola vuota, un abbaglio privo di contenuti. Libertà dal bisogno e libertà individuale, dunque. Cioè diritti universali, dal lavoro alla casa, dalla sanità all’istruzione. E diritti della persona: di pensiero, di espressione, di intuizione, creatività e passione. La libertà non può essere scissa.
Libertà di autodeterminare il proprio tragitto esistenziale, in cammino verso una vocazione spirituale o verso il compimento della propria espressione vitale. Libertà di svolgere la propria inimitabile parabola umana, nel “libero arbitrio”, anche, di attraversare l’arco misericordioso della fine, se le sofferenze di una vita di cui non si percepisce più la dignità ma solo l’agonia chiedono di essere placate per divenire altro.
La seconda convinzione è che proprio il valore della sacralità dell’individuo in quanto “spirito libero” esige che nessun uomo sia più considerabile come una funzione, sfruttabile o sacrificabile, strumento post-umano al servizio dell’ingranaggio economico. I principi della tecnocrazia vanno ribaltati con forza ed è l’economia – organizzata, guidata, ordinata dalla comunità sociale – che deve essere posta al servizio dell’essere umano, delle attitudini e delle volontà individuali.
Questo ha a che fare anche con lo Stato, che non può essere Leviatano autoritario, anti-umano, prevaricante. In fondo, la critica della tecnocrazia liberista vive dello stesso pathos che anima la critica della tecnocrazia statalista. Senza scomodare Karl Korsch o Debord e l’equivoca ma polisensa categoria del “capitalismo di Stato” dobbiamo tendere i nostri sforzi oltre le verità del Novecento, spingendo la Storia verso un umanesimo inedito, che ponga la politica e l’economia al servizio dell’uomo senza porre nessuna singolarità al di sotto di una presunta scala di valori su cui troneggi un metafisico interesse superiore, storico, culturale o collettivo.
Parliamo di un umanesimo inedito, non paternalista ma creaturale, che ridisegni la posizione umana non al centro ma all’interno dell’universo fisico. Perché l’uomo è custode del creato di cui egli è parte integrante. Qui si incontrano l’umanesimo socialista delle origini, persino il marxismo di Marx, con il segno spirituale di Cristo e San Francesco.
Ma il dialogo si nutre di domande più che di risposte e di certezze. Per questo in questa nostra suggestione suggeriamo soltanto l’altezza, lungo il sentiero, delle pietre miliari dove incontrarsi.
La prima è la pietra del lavoro, cuore e metro della schiavitù dell’età moderna e, per noi, cuore e metro del riscatto solidale della nuova civiltà. Il lavoro può essere il mezzo attraverso cui si compartecipa allo sviluppo creativo della comunità nello svolgimento della propria missione individuale, ciascuno seguendo – come suggerisce il Vangelo di Matteo – i propri talenti. Chi nega la dignità del lavoro, trasformandolo in ricatto, sfruttamento e sopraffazione, commette un crimine nei confronti dell’umanità e di fronte alla stessa idea teologica di Dio, padre e madre. Disconosce il valore dell’essere umano e lo riduce – come ci ha ricordato recentemente Papa Francesco – a bene di consumo, a scarto e residuo.
La seconda è la pietra dell’ambiente, la nostra casa comune, inquinata e in balia di un istinto autodistruttivo da parte di un modello produttivo incompatibile con i limiti ecologici del pianeta. Fa riflettere, in questo contesto, la decisione del governo neozelandese di riconoscere personalità giuridica, dopo una disputa legale durata quasi due secoli, alle acque sacre del fiume Whanganui. Salute e benessere del fiume, inteso come insieme indivisibile e vivente di tutti i suoi elementi fisici e spirituali. Nella corsa a valle del fiume Whanganui pulsa la possibilità di un dialogo inedito tra politica e spiritualità, e tra uomo e uomo, nell’ascolto sacro e laico dell’armonia terrestre.
La terza è la pietra della solidarietà. Testimonianza di amore e di irriducibile speranza nei confronti del genere umano, cura misericordiosa contro le infezioni della paura e del rancore, dell’egoismo xenofobo e di quello sociale. Perché non vi è comunità sana che non accolga il pellegrino e il migrante ai bordi del proprio fiume e non vi è comunità sana che non protegga colui che è caduto o che è rimasto indietro.
La quarta è la pietra della pace. Viviamo prigionieri di un cristallo che rischia di rompersi in mille frammenti. Tempi segnati dalla fragilità radicale di un equilibrio geo-politico che si muove a passi spediti verso il baratro. Gli Stati Uniti hanno sganciato sull’Afghanistan la più potente bomba mai utilizzata nella Storia. Oltre c’è solo il nucleare. Pochi giorni prima la prova di forza in Siria. A ribadire che il mondo è proprietà privata di un’unica superpotenza. A ribadire che la Russia, l’Iran e in prospettiva la Cina non possono fare parte della comunità internazionale. A ribadire che i massacri dell’Arabia Saudita nello Yemen non valgono perché il petrolio vale di più della verità e le armi contano più della vita umana. Il nostro compito è impedire la terza guerra mondiale, squarciando il velo di ipocrisia che lega a doppio filo l’Occidente alle monarchie sunnite del Golfo. Lavorando al contrario per un nuovo equilibrio multipolare di cui l’Europa sia perno e ponte. Rimotivando e rimobilitando un fronte per la pace e contro la guerra che veda insieme, uniti, tutti gli uomini e tutte le donne di buona volontà. All’appello lanciato da Papa Bergoglio su “La Repubblica” del 13 aprile, ricordando la figura di Agostino Casaroli e la missione di pace di Paolo VI e del Concilio Vaticano II, noi rispondiamo che ci siamo.
Questo è il giardino che vediamo. Che indichiamo. Che proponiamo. E cioè una terra vasta di incontro tra la Chiesa dell’accoglienza e della misericordia di Papa Bergoglio e i nuovi movimenti sociali e per la pace del mondo e d’Italia, contro autoritarismo e tecnocrazia, sfruttamento e guerra, in nome dell’essere umano come soggetto irriducibilmente libero. Come ricordava il Codice di Camaldoli del 1943, scritto nel cuore della Resistenza antifascista: di una libertà personale intangibile perché chiave della corresponsabilità sociale e solidale. La storia è di nuovo a un bivio: umanesimo o barbarie. Uniamoci!
Sono nato nel 1984 a Treviglio, un centro operaio e contadino della bassa padana tra Bergamo e Milano. Ho imparato dalla mia famiglia il valore della giustizia e dell’eguaglianza, il senso del rispetto verso ciò che è di tutti. Ho respirato da qui quella tensione etica che mi ha costretto a fare politica. A scuola e all’Università ho imparato la grandezza della Storia e come essa si possa incarnare nella vita dei singoli, delle classi e dei movimenti di massa. A Genova nel luglio 2001 ho capito che la nostra generazione non poteva sottrarsi al compito di riscattare un futuro pignorato e messo in mora. Per questo, dopo aver ricoperto per anni l'incarico di portavoce nazionale dei Giovani Comunisti e avere fatto parte da indipendente della segreteria nazionale di Sel, ho accettato la sfida di Articolo 1 - Movimento democratico e progressista, per costruire un nuovo soggetto politico della Sinistra, convinto che l’organizzazione collettiva sia ancora lo strumento più adeguato per cambiare il mondo.
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La Sinistra, Politica Interna,
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