Non è vero – o almeno non è ancora vero – quello che ha sostenuto Alessandro Di Battista ieri notte, mentre i numeri confermavano una Raggi sola al comando sopra il 35 per cento a Roma e un’Appendino oltre il 30 a Torino.
Non è vero cioè che il successo del M5S affonda (già?) le sue ragioni in un voto di proposta e di governo, anziché di disagio e protesta, quindi che sono state premiate le idee del Movimento su «reddito minimo, sostegno alla piccola e media impresa» e le altre belle cose citate da Di Battista.
Basta guardare i dati del M5S, così diversi da città a città. Strepitosi a Roma e ottimi a Torino, appunto; un po’ deludenti nella culla Bologna; scarsi a Milano, Napoli, Cagliari.
Se il Movimento fosse stato premiato per le sue proposte politiche nazionali, non ci sarebbero delta così significativi tra i suoi risultati: 20-25 punti di differenza tra le città in cui è andato bene e quelle in cui invece no.
Invece hanno prevalso esperienze e percezioni diversificate.
Di Battista, romano, lo sa bene per quanto riguarda la capitale: dove Il Pd e l’ex Pdl hanno fatto tanti danni e la situazione diffusa è di tale scontento che oggi, insieme, i candidati di Renzi-centrosinistra e di Berlusconi-centrodestra hanno raccolto, assommati, meno del 36 per cento. Il 64 e rotti per cento è andato altrove.
Principalmente al Movimento 5 Stelle, appunto: che nella capitale ha vinto non solo perché avrà probabilmente il sindaco, ma anche perché ha dimostrato di sapere canalizzare e incamerare meglio di chiunque altro la contrapposizione a centrodestra e centrosinistra, al Patto del Nazareno che qui odorava di mafia capitale, clientele trentennali, cattivo governo, arroganze, notai, ripittate cosmetiche con candidati (Giachetti, Marchini) la cui funzione era quella di far dimenticare chi si portavano dietro. Virginia Raggi, con tutte le sue naiveté, è stata comunque capace di rappresentare un’alternativa pulita a tutto questo. Se non ci fosse stata lei, avrebbe vinto l’estrema destra di Meloni, come in Francia, come in tanti altri posti in cui a rappresentare l’alternativa all’establishment sono i neofascisti e gli xenofobi.
Evidente il ruolo del M5S come unico oppositore sociale anche a Torino: dove il sindaco uscente ha ammesso che la sua mancata vittoria al primo turno è frutto di “crisi e malessere”, e questo malessere è andato quasi tutto al M5S, lasciando poco più che briciole alla destra salviniana (8,4) o alla cosiddetta sinistra radicale, impiantata al suo consueto 3-4 per cento. Solo a Napoli, per ragioni locali che risalgono al 2011, De Magistris ha interpretato meglio del M5S l’opposizione al Nazareno e al renzusconismo.
A Milano invece i candidati di Renzi e centrodestra hanno preso, assommati, quasi l’83 per cento. Insomma hanno fatto il vuoto. Perché il buon ricordo di Pisapia ha trascinato il voto perfino verso il grigissimo Sala, certo; perché il centrodestra era unito, d’accordo, e c’era dentro anche la protesta di Salvini; perché il M5S ha pasticciato cambiando cavallo in corsa, ancora; ma soprattutto perché la città non vive le stesse condizioni di disagio quotidiano che ci sono a Roma.
In altre parole: dove ci sono soldi che girano e un governo decente che un po’ li ridistribuisce attraverso servizi pubblici funzionanti (e senza rubare), delle proposte del M5S interessa ancora a pochi; dove invece queste condizioni non ci sono, è il M5S l’opposizione italiana.
Il che forse dovrebbe far riflettere sulle indicazioni nazionali che provengono da questo voto pur così diversificato localmente; anzi: proprio perché così diversificato localmente.
Primo, non basta raccontare che tutto va bene e “chi lo nega è un gufo”; dove c’è malessere sociale, per usare le parole di Fassino, gli elettori vanno altrove; specie se questo malessere sociale si accompagna a cattivo governo e a relazioni incestuose tra establishment e corruzione ambientale.
Secondo, questo altrove è sempre di più il Movimento 5 Stelle, De Magistris a parte; e che tutti i casini di Parma – o quelli più pretestuosi di Livorno – non cambiano di una virgola la sensazione ancora di attesa che il Movimento suscita in una larga parte dell’elettorato, cioè attesa di vedere se sanno fare meglio di chi li ha preceduti. Nè ha pesanti effetti il rapporto complicato tra gli eletti del M5S e il vertice informale del partito (Grillo, la Casaleggio, il direttorio, lo staff etc): quasi tutte pippe di noi che ci occupiamo di politica come entomologi fissati.
Terzo, la fase due del M5S inizia ora, se vince a Roma; è a quel punto che scatterà, probabilmente, un minimo di accountability per quanto riguarda le capacità di governare del Movimento. Per ora il M5S è (ancora) vissuto con una percezione prevalente di attesa e non (ancora) di giudizio. Se governa Roma, le due cose come minimo si mescoleranno.
Quarto, se il M5S dovesse andare a sbattere ci sono solo due scenari: quello francese (il ruolo di alternativa all’establishment passa all’estrema destra) o quello angloamericano (cioè Corbyn e Sanders, che peraltro da noi non sono alle viste nonostante le ambizioni di De Magistris in merito).
Quinto, il referendum che politicamente si porta dietro l’Italicum (cioè quello di ottobre) sta somigliando sempre di più a un paradosso. Se infatti vincesse il Sì, come vuole Renzi, per il M5S si aprirebbero davvero serie prospettive di conquistare il governo del Paese, con il ballottaggio: specie se il governo continuasse a far prevalere la favolistica sulla realtà in termini economici; ma se invece vincesse il No, Renzi dovrebbe mantenere il suo impegno di lasciare, creando così scenari ancora più incerti.
La Sinistra, Politica Interna,
di: Franco Astengo,
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