Non è semplice non farsi condizionare dall’amarezza, dalla delusione e persino dall’indignazione che sentiamo intorno a noi per il metodo con cui sono state scelte le candidature per la lista di Liberi e Uguali.
Si è trattato complessivamente di uno spettacolo non degno. Non degno delle premesse, delle promesse, delle grandi ambizioni collettive. Chi scrive, forse, ne sa qualcosa.
Ci serve però tutta intera la nostra lucidità, le nostre lenti migliori per guardare lontano e persino una dose di cura dei rapporti umani e politici tra noi, soprattutto in queste ore di difficoltà e di smarrimento.
In primo luogo va detto – qualunque sia il nostro giudizio personale su ciò che è accaduto – che saremo tutti impegnati in una campagna elettorale spietata e ciascuno di noi farà la propria parte.
Ma questo impegno, che ci sarà, non può fare velo alla verità, quella che va detta oggi e praticata dopo il 4 marzo. Anche soltanto (ma non è soltanto) per onestà intellettuale e rispetto verso noi stessi.
Ai quattro compagni che si sono assunti l’onere di fondare Liberi e Uguali e di compilarne le liste bisogna dirlo chiaro: non potete pensare di imporre il centralismo democratico in un partito che non esiste.
Il centralismo democratico, lo ha ricordato bene in questi giorni Celeste Ingrao, implica l’esistenza di un soggetto politico (e non di un cartello elettorale, come invece anche questa volta ci siamo ridotti a fare a poche settimane dalle elezioni) che al suo interno discute ed elabora in forma democratica una linea, un orientamento ideale, un programma. E che su queste basi costruisce le liste, ancora meglio con successivi elementi di verifica del consenso sul territorio.
Di più: la presenza di una dialettica democratica riconosciuta e legittimata è l’unico strumento per provare a superare in avanti le divisioni tattiche che emergono e che rendono oggi plasticamente l’idea di un potpourri di spunti irrelati, insieme al vuoto di proposta politico-programmatica cui assistiamo, senza pregiudicare un’unità così faticosamente raggiunta.
In questi anni hanno raccontato a reti unificate la favola del partito del Novecento che non serviva più e abbiamo finito per crederci anche noi. Abbiamo abbandonato il partito, abbiamo deciso di non farlo preferendogli strutture liquide. Però ci siamo tenuti il centralismo democratico. Il quale, in assenza di processi seri di legittimazione dei gruppi dirigenti, si trasforma in “centralismo burocratico”. Una cosa che assomiglia di più ai cerchi magici che non ai mitici meccanismi di partecipazione e protagonismo dal basso invocati a ogni piè sospinto.
E’ una questione di sostanza e anche di forma, che è essa stessa sostanza soprattutto all’interno della crisi di credibilità della politica e della percezione della sua efficacia rispetto alla vita reale delle persone che stanno uccidendo ogni residuo di sinistra nel nostro Paese.
La scena è questa: generali senza popolo asserragliati nel bunker con i loro staff, un popolo senza generali disperso e confuso, pronto all’esilio o alla fuga o alla resa.
Vi è solo un modo per evitare che questa scena si cristallizzi per sempre, per non fare scappare di nuovo nel bosco i molti che siamo andati a cercare con la torcia nei mesi scorsi: affrontare subito dopo il voto un appuntamento democratico di tipo congressuale in cui fare un bilancio, scegliere una linea politica che ci consenta di stare in campo in maniera non improvvisata, votare finalmente, a tutti i livelli, i gruppi dirigenti. Votare gruppi dirigenti, non rinnovare deleghe in bianco. Votare gruppi dirigenti, non incoronare l’uomo solo al comando, il nuovo o vecchio leader cui affidare nella buona e nella cattiva sorte le fortune del processo collettivo.
Proseguire anche dopo il voto la già lunga sequenza di assemblee senza potere decisionale, convention o happening mediatici all’americana sarebbe mortale per le possibilità di ricostruire nel nostro Paese una forza di sinistra seria, radicata nel territorio, legata al mondo del lavoro, dotata di una visione autonoma, di un’idea della storia e del futuro. Che è invece precisamente quel che ci serve. Il gruppo parlamentare, il momento istituzionale, segue, viene dopo: non comanda il partito. E’ per questo che suggerisco di guardare la luna e non il dito. I processi politici sono più importanti delle persone, dei candidati di oggi e degli eletti di domani. Se costruiremo un partito serio, quegli eletti risponderanno alla volontà generale. Se non lo costruiremo, continuando a legittimare anche involontariamente questa insopportabile logica oligarchica, gli eletti continueranno a comandare, imponendo la somma di volontà particolari, spesso in conflitto tra loro.
Siamo già al bivio decisivo. Occorre mettersi in cammino.
Sono nato nel 1984 a Treviglio, un centro operaio e contadino della bassa padana tra Bergamo e Milano. Ho imparato dalla mia famiglia il valore della giustizia e dell’eguaglianza, il senso del rispetto verso ciò che è di tutti. Ho respirato da qui quella tensione etica che mi ha costretto a fare politica. A scuola e all’Università ho imparato la grandezza della Storia e come essa si possa incarnare nella vita dei singoli, delle classi e dei movimenti di massa. A Genova nel luglio 2001 ho capito che la nostra generazione non poteva sottrarsi al compito di riscattare un futuro pignorato e messo in mora. Per questo, dopo aver ricoperto per anni l'incarico di portavoce nazionale dei Giovani Comunisti e avere fatto parte da indipendente della segreteria nazionale di Sel, ho accettato la sfida di Articolo 1 - Movimento democratico e progressista, per costruire un nuovo soggetto politico della Sinistra, convinto che l’organizzazione collettiva sia ancora lo strumento più adeguato per cambiare il mondo.
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di: Simone Oggionni,