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Italia-Palestina: cronologia di un po’ di coraggio

Che gli interessi in campo siano troppo grossi per essere toccati è vero in parte. La storia della politica estera italiana rispetto al conflitto israelo-palestinese ci parla di inaspettati momenti di coraggio e autonomia

Il 27 febbraio, il parlamento italiano è stato chiamato a votare circa il riconoscimento dello Stato di Palestina. L’operazione si presentava semplice: sì o no, tasto verde o tasto rosso, eppure i nostri rappresentanti politici sono riusciti in un ennesimo capolavoro di cialtroneria italica, hanno votato “ni”. Ci sono riusciti approvando due mozioni, l’una del PD che parlava esplicitamente di riconoscimento e una di NCD, che legava questo a un’intesa Hamas-Fatah e all’avanzamento dei colloqui di pace. Dopo il voto, mentre tutti, increduli, cercavano di capire cosa potesse rappresentare una conclusione del genere, ci ha pensato l’ambasciatore israeliano a Roma a far capire a chi abbiamo fatto il favore, ringraziando gli italiani per non aver riconosciuto la Palestina.

Il voto favorevole, che niente avrebbe cambiato nelle condizioni di vita materiali dei palestinesi, avrebbe rappresentato un riconoscimento morale e simbolico potente nei confronti di un popolo che si vede quotidianamente scippare la sua terra, e che da decenni resiste alle violazioni di uno stato che non vuole saperne di rispettare il diritto internazionale. Eppure, alla fine, ci è mancato il coraggio.

Di solito in questi casi ci si giustifica dicendo che gli equilibri della politica internazionale sono delicati e gli interessi in campo troppo grossi per poter essere messi in discussione da posizioni politiche integerrime, eppure questo è vero in parte. Lo dimostrano, oltre ai recenti riconoscimenti di Inghilterra e Svezia, la stessa storia della politica estera italiana che rispetto al conflitto israelo-palestinese ha visto momenti di grande sensibilità, coraggio e autonomia, messi in campo anche da uomini da cui difficilmente ce lo si sarebbe aspettato. Il rapporto fra l’Italia e gli attori del conflitto è stato un rapporto, per tutta la Prima Repubblica, portato avanti su un doppio piano: da un lato quello istituzionale in cui il nostro Paese, parte dell’Alleanza Atlantica, si è comportato seguendo i dettami dell’Occidente, ossia degli USA, quindi perseguendo una linea filo-israeliana; dall’altro quello ufficioso, fatto di amicizie, contatti diretti, attestazioni di stima e onestà intellettuale, in cui l’Italia è parsa decisamente più filo-araba rispetto alle altre nazioni d’Occidente, finendo per appoggiare la causa palestinese in più di un’occasione.

Aldo Moro e la Palestina

Qualche indizio sul ruolo di mediatore e di Paese protagonista nel Mediterraneo a cui l’Italia ambiva si ebbe nel 1956, durante la Crisi di Suez, quando l’Egitto provò ad opporsi all’occupazione militare del suo celebre canale da parte di Francia, Inghilterra e Israele, e l’Italia, pur vincolata dall’Alleanza Atlantica, assunse una posizione protettiva nei confronti dell’Egitto non appoggiando l’intervento militare. Lo stesso successe circa dieci anni dopo, quando durante la Guerra dei Sei Giorni l’Egitto interdisse il Canale di Suez alle navi israeliane ed ebbe molta risonanza nel mondo occidentale il silenzio di Moro, allora presidente del consiglio, il quale si astenne da qualunque condanna.

Negli anni successivi Moro non si limitò al silenzio. Subito dopo la guerra dello Yom Kippur (1973), usandola in realtà come pretesto, l’allora presidente pose il problema mai risolto dei territori occupati da Israele nella guerra del 1967, fece dichiarazioni a sostegno dei diritti dei palestinesi e votò favorevolmente circa la partecipazione di Arafat al dibattito sulla Palestina presso le Nazioni Unite. Sono rappresentative a questo proposito le parole che il politico pugliese pronunciò il 23 gennaio 1974 in un discorso rivolto alla Commissione Esteri del Senato quando parlò di “valorizzazione” dei rapporti con gli arabi e di necessità di una “patria” palestinese.

Il fatto che tali posizioni non lasciassero indifferenti i palestinesi lo dimostra l’intricato caso del rapimento Moro quando, come racconta Nemer Hammad, ambasciatore storico dell’OLP in Italia, Arafat in persona si propose di agganciare le BR per provare a liberare il politico. Diversi terroristi italiani in quegli anni si addestravano assieme ai palestinesi nei campi della Valle del Giordano e ciò aveva creato dei legami. Tuttavia l’operazione avrebbe richiesto troppo tempo e si decise per un’altra strada.

Arafat in Italia, il PCI, i funerali di Berlinguer

Le aperture più importanti nei confronti dei palestinesi si ebbero ad ogni modo nel decennio ’80. Nei primi anni si avviò una raccolta firme, dapprima per una petizione e poi per una mozione parlamentare, con l’intento di arrivare ad un riconoscimento ufficiale dell’OLP. Era la prima volta che un parlamento occidentale avanzava una richiesta simile. Il documento raccolse 450 firmatari fra cui ci furono Zaccagnini in qualità di rappresentante della DC, Berlinguer per il PCI e Craxi per il PSI. A seguito di ciò, Pertini, Presidente della Repubblica in carica, decise di invitare in Italia Arafat che il 15 settembre 1982 tenne un importante discorso al parlamento, ricordato da molti per l’immagine della pistola alla cinta del leader palestinese tenuta per tutta la permanenza all’interno di Montecitorio.

Nel 1983, al Consiglio europeo di Venezia, fu grazie al protagonismo dell’Italia che l’OLP venne inserita quale interlocutore nei negoziati di pace. Ma la vicenda che rappresenta al meglio la vicinanza fra italiani e palestinesi è quella dei funerali di Berlinguer. Il PCI aveva sposato in modo solerte la causa palestinese. Già in una risoluzione del ’75 ad esempio si può leggere del sionismo che è “un’ideologia conservatrice e reazionaria, strumentalmente utilizzata dall’imperialismo e tale da generare spinte aggressive, espansionistiche e discriminatorie”. Così la pensava anche il leader storico del PCI, Berlinguer, ai funerali del quale Arafat non volle assolutamente mancare. A quel tempo il capo dell’OLP era ricercato dalla polizia italiana poiché accusato dell’abbattimento di un aereo militare, giunto in Italia dunque sarebbe stato sicuramente arrestato se non fosse che trovò ospitalità e “nascondiglio” negli appartamenti del presidente del Senato, Francesco Cossiga, che personalmente racconterà in seguito la vicenda. Qualche ora dopo Arafat partecipò ai funerali solenni del defunto.

Il caso “Achille Lauro”, Cossiga, Andreotti  

Eppure Cossiga era considerato, all’interno della DC, uno dei più fedeli sostenitori della linea “atlantica”, spesso contrapposto ad Andreotti, “l’amico degli arabi”. Nel 1985 Andreotti era ministro degli esteri del governo Craxi e fu proprio assieme a questo che risolse il sequestro dell’”Achille Lauro” gestendo poi la crisi di Sigonella, una plateale prova di forza dell’Italia conclusasi in favore degli arabi. Il 7 ottobre di quell’anno quattro guerriglieri palestinesi presero in ostaggio la nave da crociera “Achille Lauro” con 450 persone a bordo. Dopo frenetiche trattative si giunse alla liberazione degli ostaggi in cambio di un salvacondotto per i terroristi. Due giorni dopo la liberazione tuttavia si scoprì che unica vittima della vicenda era stato un cittadino paralitico ebreo-americano cosa che scatenò le ire di Reagan. Mentre i quattro sabotatori venivano rimpatriati a Tunisi l’aviazione americana decise di dirottare il volo costringendolo ad atterrare a Sigonella (Sicilia).

Qui le forze armate americane provarono a prendere in custodia i passeggeri, proposito che si scontrò con quello delle forze armate italiane le quali giustamente vollero far valere la propria sovranità. Si giunse quasi ad uno scontro armato, ma alla fine la spuntò l’Italia, dunque Craxi e Andreotti, che processarono i palestinesi in Italia rimpatriandone in seguito alcuni. Fu lo stesso Andreotti che nel 2002, in piena Seconda Intifada, dichiarerà “’se fossi stato in un campo profughi da 50 anni, con la mia famiglia, i miei figli, non avrei avuto bisogno dell’aiuto di Teheran per trasformarmi in un uomo-bomba”.

Conclusioni

Questa la cronologia di qualche sprazzo di coraggio italico, coraggio già di per sé scarso, ma venuto completamente meno con la Seconda Repubblica e l’avvento dell’egemonia berlusconiana quando l’Italia, appiattita completamente su posizioni americane, perse il suo credito verso gli arabi conquistato a fatica in 40 anni. Oggi quasi tutti i palestinesi ricordano le coraggiose parole del Cavaliere quando alla domanda su che impressioni avesse avuto attraversando il Muro nella sua visita ai Territori (2010), rispose “non me ne sono accorto in quanto stavo rimettendo a posto le mie idee”.

Per fortuna in Palestina ricordano anche altri tipi di coraggio, quello inatteso e insperato del “sì” all’Onu sul riconoscimento della statualità, o quello di Vittorio Arrigoni e la gente come lui, per cui ancora si commuovono e non trovano le parole. Infine i palestinesi, quando pensano all’Italia, ricordano una canzone, che non è “Italiano vero” come nel resto del mondo, bensì “Bella ciao”, e ti chiedono di cantarla facendoti il coro nel ritornello, con un “ciao” dalla “c” biascicata. Sanno che è la canzone della resistenza “Bella ciao”, dell’ultima volta in cui gli italiani non sono riusciti a trattenere il coraggio.

andrea colasuonno

Andrea Colasuonno nasce ad Andria il 17/06/1984. Nel 2010 si laurea in filosofia all'Università Statale di Milano con una tesi su Albert Camus e il pensiero meridiano. Negli ultimi anni ha vissuto in Palestina per un progetto di servizio civile all'estero, e in Belgio dove ha insegnato grazie a un progetto dell'Unione Europea. Suoi articoli sono apparsi su Nena News, Lo Straniero, Politica & Società, Esseblog, Rivista di politica, Bocche Scucite, Ragion Pratica, Nuovo Meridionalismo.

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