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Centralismo Democratico

Riflessioni sull'ultimo libro di Domenico Del Prete

“Se quel 24 novembre del 1969 fosse passato il concetto che Magri e Rossanda potevano fare in libertà una loro rivista il PCI non sarebbe stato più lo stesso e la svolta l’avremmo fatta vent’anni prima”.

Così si pronuncia Achille Occhetto, interrogato oggi sulle vicende riguardanti gli ultimi decenni del PCI: la frase pronunciata dall’ultimo segretario del PCI compare nel volume curato da Domenico Del Prete sotto il titolo “L’inganno di Berlinguer: la mancata svolta di una sinistra di governo” (edizioni Pendragon 2018) che contiene interviste ad alcuni dei più importanti dirigenti comunisti ancora presenti sulla scena politica, da Emanuele Macaluso a Luciana Castellina, da Aldo Tortorella a Giorgio Napolitano e Massimo D’Alema fino al già citato Occhetto, oltre ad un socialista come Intini, a un osservatore storico – giornalistico come Paolo Mieli e a un autorevole storico del Pci come Beppe Vacca, a lungo presidente dell’Istituto Gramsci.

Il filo conduttore del libro può sicuramente essere già rintracciabile nel titolo al riguardo della “mancata svolta di una sinistra di governo”.

La propensione prevalente che si rintraccia nelle pagine curate da Del Prete è naturalmente orientata verso la mancata “socialdemocratizzazione”, la non avvenuta confluenza nel filone socialista e di conseguenza l’occasione (ritenuta) perduta della costruzione di un’alternativa di stampo occidentale.

Nella visione di Berlinguer (la cui azione politica costituisce sicuramente il principale oggetto della discussione) il passaggio verso il governo doveva realizzarsi attraverso il confronto con l’area cattolica e di conseguenza con la DC (che in quel momento – ricordiamolo- rappresentava comunque l’unità politica dei cattolici).

La linea del “compromesso storico” vista quale sbocco naturale di quella dei “fronti popolari”.

Non mancano però, nei ricordi degli intervistati (Luciana Castellina è l’unica donna) gli accenni a una “uscita a sinistra”, alla ricerca cioè di una “terza via” rivoluzionaria in Occidente, completamente sganciata dal modello sovietico.

Su questo punto, nel corso di molti interventi, ricorre ancora la vicenda della radiazione del gruppo del “Manifesto”.

La radiazione del Manifesto viene posta in particolare rilievo nel rievocare l’analisi riguardante l’atteggiamento tenuto dal PCI al riguardo dell’intervento delle truppe del Patto di Varsavia a Praga, per stroncare la cosiddetta “Primavera” promossa dalla maggioranza del Partito Comunista Cecoslovacco (alla cui difesa, alla fine, il futuro gruppo del Manifesto restò isolato).

Alcuni si rammaricano oggi. a distanza di tanti anni, per aver scelto in quella riunione del Comitato Centrale già citata all’inizio, la scelta dell’allontanamento del gruppo del Manifesto dal Partito: del resto lo stesso Ingrao aveva pronunciato, in tempi non sospetti, parole inequivocabili di vero e proprio pentimento.

Eppure il tema centrale di quella vicenda che davvero avrebbe potuto rappresentare il vero punto di svolta nella storia del PCI risiede, almeno a mio giudizio, proprio nella frase di Occhetto sopra riportata e riguardante la questione del centralismo democratico.

Le parole pronunciate all’epoca da Natta, in quel momento pubblico ministero nell’accusa di frazionismo al gruppo del Manifesto, circa l’intollerabilità di un’ammissione del principio di libera iniziativa del dibattito politico all’interno del Partito, rimangono come vera e propria pietra miliare della concezione della forma – partito che avrebbe dovuto rimanere inalterata.

Natta non smentì quella posizione neppure nel momento in cui, da segretario del PCI, realizzò nel 1985 la confluenza del PdUP.

Torniamo però al 1969: in quel momento, anche se la storia non ammette – intendiamoci – i “se” e i “ma”, avrebbe forse potuto essere affrontato un punto di contraddizione che la “doppiezza togliattiana” non era stata in grado di sciogliere.

Il punto era questo: come aveva potuto convivere la formula del centralismo democratico direttamente mutuata dalla risoluzione del II Congresso dell’IC (1920) che nel suo punto 14, fermamente ribadiva: «Il partito comunista deve basarsi appunto sul principio del “Centralismo democratico”> con la formula del “partito nuovo” nato dalla “svolta di Salerno”?

Un partito “nuovo” di massa e non solo di quadri, profondamente innervato nella società italiana per cambiarla e non in perenne attesa che scoccasse l’ora della rivoluzione restava contraddittoriamente (almeno in apparenza) basato nella sua forma di espressione decisionale dal principio del “centralismo democratico”.

Lo scioglimento di quel nodo non si verificò proprio per il permanere della già citata “doppiezza” .

“Doppiezza” poco citata nei testi contenuti nel volume di Del Prete,che necessitava, per la propria gestione proprio al vertice di un partito a integrazione di massa organizzato sulla base della formula di Duverger dei “cerchi concentrici”, di una compattezza da organizzazione bolscevica come se il partito si trovasse accerchiato dalle forze della reazione capitalistiche.

Togliatti forse pensava già a qualcosa di diverso e non a caso nel memoriale di Yalta, citato nell’introduzione del volume di Del Prete accenna a “lentezze e resistenze non si spiegavano quando le condizioni erano mutate e non esisteva più l’accerchiamento capitalistico”.

I suoi successori però non concretizzarono quell’intuizione.

L’intenzione del gruppo del Manifesto era davvero quella di rompere il centralismo democratico e aprire il varco a una struttura di partito fondata sul confronto tra frazioni?

Questo si può negare, almeno leggendo la ricostruzione che Rossana Rossanda aveva svolto sviluppando una storia del gruppo nel corso di un seminario svoltosi a Bellaria nel settembre del 1977 (“Il senso della nostra storia”, testo riportato dal n.3/77 della rivista “Questioni di organizzazione” edita dal Pdup per il Comunismo).

Scrive dunque Rossanda (non interpellata del resto dal curatore del libro: e questa, oggettivamente, ha rappresentato una lacuna):

“ Il tema era quello del come far vivere il tema della rivoluzione italiana all’interno del partito comunista, che dopo averlo se non alimentato, legittimato dal ’60 al ’67 lo chiude? Per tutto l’anno che seguì l’XI congresso e fino al dicembre del 1967, il tentativo degli sconfitti dell’XI congresso fu di conservare né un gruppo, né una frazione, eravamo straordinariamente disciplinati, ma una ricerca di linea, una segnalazione politico-culturale, una presenza attorno ad un’impostazione alternativa rispetto a quella che la maggioranza del partito portava avanti. Ma eravamo dispersi, in fondo neppure ci conoscevamo.

Così nasce e poi pare prendere corpo nell’inverno del ’68, per la prima volta, l’idea di andare ad una rivista o a un libro o a degli annali; a un momento di coagulo e che non suoni rottura di una disciplina, per raccogliere ed esplicitare come presenza, come leva inserita all’interno del partito, una rielaborazione della tematica che all’undicesimo congresso era stata sconfitta.”

E’ stato su queste basi , invece, che si arrivò all’accusa di frazionismo e alla successiva radiazione, sulla base delle motivazioni di Natta già sopra riportate.

Del resto il solo vero contraltare possibile, dal punto di vista della “forma – partito” poteva essere rappresentata, rispetto proprio al “centralismo democratico”, da una struttura di tipo “consiliare”.

La riflessione sulla “via consiliare” è risultato sempre assolutamente marginale nella storia del movimento comunista anche nel momento in cui avrebbe dovuto essere aperta una discussione su di una forma politica dell’alternativa.

Anche adesso la marginalizzazione dal dibattito della strategia consiliare permane pur avendo tutti presa coscienza del trovarsi in una società nella quale il confronto ideologico appare sfumato mentre le condizioni della materialità dello sfruttamento permangono e si acuiscono e si accentua la necessità urgente di una rappresentazione politica diretta proprio di quelle contraddizioni che emergono dal già ricordato acuirsi della materialità dello sfruttamento (allargamento delle disuguaglianze, apertura di nuovi “cleavages sociali”, ecc.).

La lettura dei testi contenuti nel volume in questione non può essere ridotta a una semplice carrellata di ricordi e (anche) di recriminazioni: la lettura della storia, complessa, di un grande partito di massa qual è stato il PCI e la constatazione dell’assoluta insufficienza delle motivazioni addotte a suo tempo per liquidarlo (almeno nella sua forma precipua dell’”integrazione di massa”) può rappresentare un utile esercizio non soltanto per qualche ostinato “cultore della materia” ma anche per chi intende impegnarsi ancora nella politica di oggi e ne avverte tutti i vuoti sul piano culturale e della rappresentanza.

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