Se qualcuno avesse detto a Rossi, Spinelli, Colorni e Hirschmann che, settantacinque anni dopo la loro elaborazione, nel carcere di Ventotene, del manifesto che ha ispirato la nascita del progetto di integrazione europea, quell’idea sarebbe stata nuovamente messa in discussione dal riemergere di nazionalismi e frontiere non solo alla periferia d’Europa, ma anche nel suo cuore pulsante, in Francia e in Germania, forse avrebbero addirittura rinunciato a scriverlo e si sarebbero risparmiati di sobbarcarsi rischi inutili nella sua stesura.
Ma che direbbero se vedessero, però, la loro visionaria utopia realizzata oggi nella maniera che conosciamo? Siamo sicuri che la reazione sarebbe stata poi tanto diversa?
Adesso, senza avventurarci in poco pertinenti interviste impossibili con Ernesto Rossi o con Altiero Spinelli, poniamo a noi stessi quella domanda: è davvero questa l’Europa che volevamo?
La risposta è sempre più diffusamente negativa, sia in ambienti da “addetti ai lavori” sia nell’opinione pubblica diffusa.
Anzi, in quest’ultima fetta di campione, che è (se a sinistra qualcuno non se ne fosse ancora accorto) la stragrande maggioranza del campione, il giudizio sull’Europa si trasforma sempre più da negativo in ostile.
Si percepisce l’Europa come il luogo in cui, burocrati non eletti da nessuno, possono liberamente ingerire non solo nella vita politica nazionale, ma addirittura nella vita quotidiana delle persone, con provvedimenti restrittivi e vincoli che agiscono direttamente sul cittadino.
L’insofferenza per certe (presunte) ingerenze viene da lontano, dagli allevatori che protestavano contro le quote latte, dal divieto di vendere la bistecca alla fiorentina, passando per la possibilità di delocalizzazione per le aziende, fino ad arrivare alla crisi del 2009 e a questi dieci anni in cui i finanziamenti europei sono finiti (almeno nel percepito comune) nel circuito finanziario delle banche senza vantaggi diretti per i cittadini.
Viene da lontano, ma i campanelli d’allarme avevano già suonato.
Il trionfo di Jorg Haider in Austria nel 1999, l’accesso al ballottaggio francese di Jean-Marie Le Pen nel 2002, il mancato controllo sui rincari nel passaggio lira-euro e la conseguente inflazione, la bocciatura della carta costituzionale europea in Francia e Olanda nel 2005 erano tutte premesse all’esplosione della grande crisi attuale.
Come spesso accade, due orecchie sorde stancano più di mille campane, e i campanelli d’allarme suonarono inascoltati. Le difficoltà derivanti dalla crisi economica si sono innestate su questo tessuto socio-culturale e il battito d’ali di una farfalla alle elezioni della Carinzia nel 1999 ha scatenato l’uragano gialloverde del 2018 in Italia.
Oggi ci troviamo in una situazione all’interno della quale l’Europa è considerata il male di tutto. È la responsabile dell’aumento dell’età pensionabile, della precarizzazione del lavoro e della riduzione delle sue tutele, dell’immigrazione, dell’austerity.
La frase “Ce lo chiede l’Europa” è una delle frasi più odiate che si possano pronunciare in pubblico.
Al di là della verosimiglianza più o meno reale di queste opinioni, rimane la domanda di cui sopra: noi, che siamo la sinistra, la sognavamo così quest’Europa? L’Europa che sognavamo noi era innanzitutto un’Europa democratica, all’interno della quale la sovranità popolare avrebbe dovuto esprimersi al massimo grado.
Esatto, la sovranità, perché si può essere sovranisti ed europeisti allo stesso tempo, anzi, forse è l’unico modo di esserlo davvero, perché quando i vari Salvini, Le Pen, Orban, Farage parlano di sovranità, loro intendono la sovranità nazionale.
E cosa accade se nelle nazioni, a trazione sempre più liberista e autoritaria, si svuotano i diritti di partecipazione sostanziale dei cittadini? La sovranità nazionale non è in discussione, ma cosa farsene più, dal momento che esprimerà l’interesse e la volontà di chi ha soldi, mezzi di produzione, sponsor e mezzi di comunicazione efficienti? Noi siamo, invece, sovranisti europei, per la sovranità popolare, perché rifiutando la dicotomia sovranità nazionale VS tecnocrazia europea, noi contrapponiamo il paradigma demos VS mercati.
Non è l’Europa in quanto tale a svuotare di sovranità la nostra partecipazione attiva, ma il suo impianto neoliberista e tecnocratico, alimentato, oltretutto, da due culture di resistenza alla cessione di sovranità dalle nazioni all’Europa, cioè l’atteggiamento dei governi di Francia e Germania in questi ultimi venti anni. L’inganno nazional-sovranista non mostra questa contraddizione.
È proprio la difesa degli interessi nazionali tedeschi e francesi che ha portato allo stallo attuale.
L’Europa che vogliamo deve esprimere una politica estera autonoma e pienamente legittimata, con un vero ministro degli esteri e non un semplice alto rappresentante, deve poter esercitare politiche fiscali omogenee, combattendo i paradisi fiscali al suoi interno e impedendo concorrenze sleali nella tassazione, deve garantire servizi e welfare a tutti i suoi cittadini, riducendone le diseguaglianze sociali.
A tal proposito è compito delle sinistre nazionali lavorare ad una proposta di tassa patrimoniale e di una tobin tax europee, ed è compito delle sinistre ridurre le diseguaglianze anche tra nazione nazione, lottando perché il costo del denaro sia equivalente in tutta l’eurozona.
L’Europa che vogliamo deve dotarsi di un suo esercito comune, contare militarmente all’interno dello scacchiere internazionale e svolgere un ruolo di baluardo democratico all’interno del mondo che si organizza in blocchi continentali.
Per ottenere questi risultati, il primo passo non può che essere l’istituzione dell’elezione diretta del Presidente della Commissione e la facoltà di potestà legislativa piena da conferire al Parlamento Europeo.
L’Europa che vogliamo, e che dobbiamo assolutamente costruire, è l’Europa che era stata immaginata nel carcere di Ventotene, ed era stata immaginata federale e socialista.
La Sinistra, Politica Estera, Politica Interna,
di: Luigi Iorio,
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di: Andrea Pisauro,
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