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UN PROCESSO COSTITUENTE ANCHE IN ITALIA

Dal no al referendum costituzionale all'apertura di una fase costituente

L’appello del presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky  , dal significativo titolo Fermiamo il suicidio assistito della nostra costituzione, è solo l’ultima delle voci autorevoli, che negli ultimi anni si sono levate per cercare di stimolare l’opinione pubblica contro lo smantellamento de iure e de facto della Costituzione della Repubblica.
Questa volta le riforme sono tutte orientate all’ “umiliazione del Parlamento” e della sua funzione rappresentativa, già pesantemente colpita da leggi elettorali che hanno trasformato le aule parlamentari in consessi di nominati, minandone alla base l’autonomia e l’indipendenza dal potere esecutivo.
Con la riforma all’esame delle Camere si compie un ulteriore passo: si trasforma il Senato, per usare le efficaci parole del prof. Zagrebelsky, in “una proiezione amministrativistica di secondo grado di enti locali, a loro volta affamati di risorse pubbliche” .
Quasi un organo amministrativo, insomma, la cui azione è paralizzata dai vincoli di finanza pubblica imposti dall’austerità europea.
Si tratta di un processo di lungo corso che ha come obiettivo principale quello di mortificare la politica, rendendola sempre più incapace di farsi motore della trasformazione sociale, relegandola così a una funzione meramente ancillare degli interessi dei poteri forti e dei loro rappresentanti governativi.
Se questa è la posta in gioco, ci sarebbe da stupirsi dall’assenza di una grande risposta popolare e di massa a questo ulteriore tentativo delle oligarchie di restringere, fin quasi ad eliminare del tutto gli spazi istituzionali di democrazia e di dibattito.
Sono molte le ragioni che si prestano a spiegare questa assenza di reazioni da parte dell’opinione pubblica, le stesse che stanno alla base di quella crisi della democrazia rappresentativa che viene da lontano e che ha subito una forte accelerazione con la crisi economica degli ultimi anni.
Alberto Burgio ha ben spiegato i termini di un evidente paradosso.
Nei movimenti sociali si è alimentato, non senza ragioni, un clima di sfiducia nella delega e una rivendicazione aperta di spazi di democrazia diretta, un processo costante dal 68 ai nostri giorni, manifestando “una domanda iperdemocratica di partecipazione diretta al comando politico”. Negli ultimi anni addirittura abbiamo visto l’affermarsi come principale forza politica di opposizione di un partito, che ha fatto del rifiuto della rappresentanza politica, della mistica dell’ “uno vale uno” e delle potenzialità salvifiche del web nell’aprire spazi di partecipazione politica, un elemento distintivo e ideologico. Nel contempo si sono rafforzate  forme di investitura carismatica del capo che tutto decide, e rispetto alla cui volontà i meccanismi di deliberazione parlamentare rappresentano un intralcio costoso e improduttivo.
In realtà come spiega Burgioper quanto paradossale possa apparire (in effetti è un paradosso, ma anche un dato di fatto), la delega totale al capo carismatico e l’esercizio della sovranità in regimi di democrazia diretta appaiono antitetici, ma sono in realtà gemelli siamesi”. Più aumenta la richiesta di democrazia diretta più si rafforza il potere dell’uomo solo al comando. Un paradosso che si rivela ancora più esiziale laddove si consideri che storicamente “quanto più si svaluta la rappresentanza, tanto più il conflitto politico si riduce a negoziato diretto tra portatori di interessi costituiti (a detrimento dei ceti per i quali il numero costituisce la fondamentale risorsa politica)”.
Che fare ? In questi giorni in Italia è tutto un fiorire di analisi, sempre le stesse e sempre più fastidiosamente ripetitive, che invocano la necessità di riunire una sinistra ormai ridotta allo stato pulviscolare, per provare a ridare dignità e rilevanza agli interessi dei ceti popolari e delle classi subalterne, colpite più di altre dalla crisi e sempre più escluse dai meccanismi di decisione politica. Classi che, nonostante i mille appelli alla mobilitazione, sembrano sempre più passive e lontane da un dibattito pubblico che considerano a ragione irrilevante per le loro sorti immediate e future.
L’atteggiamento prevalente nel ceto intellettuale e politico di sinistra, o di quel che ne rimane, denota una scarsa propensione all’innovazione che finisce per approfondirne la distanza dagli interessi e dai bisogni dei ceti popolari. In altre parole mi chiedo che senso abbia continuare a produrre appelli in difesa della Costituzione e dei diritti sociali, civili e politici che essa sancisce quando la stessa carta costituzionale è ormai, e da tempo, lettera morta nella prassi di classi dirigenti che ne hanno stravolto completamente l’impianto e l’efficacia.
Non sarebbe meglio lanciare un appello perchè si inauguri un nuovo processo costituente ?
Una costituzione nuova per tempi nuovi, un nuovo patto sociale che possa stringere vincoli di solidarietà politica tra quanti si sentono oggi esclusi dalla violenza e dall’arroganza di un potere lontano e dispotico, incapace di riformare se stesso, e sempre più espressione di oligarchie finanziarie ed economiche corrotte e corruttrici.
Alberto Gar­zón Espinosa, il giovane leader di Izquierda Unida, in una sua bell’intervista su Il Manifesto di oggi ci da conto del diverso livello che, su queste questioni,  ha assunto il dibattito pubblico in Spagna. Non a caso una politica di unità popolare potrebbe riuscire nell’intento di strappare la Spagna al gioco delle grandi coalizioni austeritarie e aprire nuove e decisive prospettive di cambiamento. “La costi­tu­zione del 1978 è già ai ferri corti da molto tempo.” -dice Garzón – ” I suoi fon­da­menti, il con­te­sto socio-storico, sono scom­parsi. Il patto capitale-lavoro, che cer­cava di intro­durre lo stato sociale che nel resto d’Europa è arri­vato 30 anni prima, non c’è più. (…) Il pro­cesso costi­tuente è già in corso. La scelta non è fra un pro­cesso costi­tuente o niente. È fra un pro­cesso costi­tuente diretto dall’oligarchia, o uno diretto dal popolo “
Sono parole attuali anche per il nostro Paese. Se solo provassimo a sposarle veramente anche in Italia e a coinvolgere in questo processo autenticamente dal basso le sterminate masse degli esclusi e degli oppressi, forse finalmente cominceremo a dare delle risposte innovative e partecipate ai temi che la crisi pone e alle soluzioni che richiede.
Forse, a meno di non continuare ad arrabattarci in infinite dispute teologiche o dottrinali tra chi pensa di rappresentare una prospettiva di progresso, mentre il cambiamento procede in altre direzioni. Come la vita delle donne e degli uomini che dovrebbero incarnarlo.

Alberto Rotondo

Vive a Catania. Attivista politico antirazzista, antisessista e antispecista. Si interessa di questioni economiche e di politica europea e internazionale.

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